Babel, foto-meditazioni di Valeria Pierini su Jorge Luis Borges
Babel, 2013 – in esclusiva per la prima volta su Colori Vivaci Magazine
“Non posso immaginare alcuna combinazione di caratteri che la divina Biblioteca non abbia previsto, e che in alcuna delle sue lingue segrete non racchiuda un terribile significato.” (La biblioteca di Babele, Jorge Luis Borges)
Quando Valeria Pierini mi ha mostrato questo lavoro, ho ripercorso con la mente le sue ricerche passate, sempre permeate da una poetica ben identificabile e coerente, e ho lasciato affiorare dall’inconscio una parola, che credo racchiuda perfettamente il suo modo di concepire la fotografia: sciamano. C’è, nei suoi scatti, un’empatia così forte con gli elementi con cui viene a contatto, un’attenzione alle cose piccole e impalpabili e un rispetto quasi primitivo nei confronti del medium, da rendere il suo approccio mai ruffiano, mai incline a compromessi, ma specchio, a tratti, di un sapere animale, venuto da molto lontano. Un’arte complessa la sua, figlia della fotografia concettuale, della letteratura e della contaminazione di diverse discipline; un genere di espressione che chiede al fruitore, con sguardo onesto, lo sforzo di un passo in avanti, il tempo indefinito di un giusto approfondimento, di una ricerca di supporti per la comprensione e infine la voglia di giocare a ricostruire, con gli indizi che è solita disseminare nelle sue immagini, il sentiero dei suoi pensieri. Misurarsi con Jorge Luis Borges, sembra una risposta affermativa a queste mie supposizioni. Farlo con La Biblioteca di Babele, quasi una dichiarazione d’intenti.
La serie Babel, riscrivendo con gli occhi della fotografa (citando da subito la cecità dello scrittore, che Valeria riprende all’interno del lavoro) il controverso racconto dell’autore argentino, si scompone in cinque sottoinsiemi che rappresentano una sintesi possibile dei celebri esagoni che compongono l’universo-Biblioteca. Valeria circoscrive in questi cinque piani di conoscenza, la sua esperienza personale nella Biblioteca (esagono della contemplazione, esagono della catalogazione, esagono degli occhi pesanti, esagono della caduta, esagono dei segni), cercando di raggiungere invano la verità che vi è contenuta, quel senso che da sempre l’uomo va cercando, nei libri, nei sogni o nelle linee della mano.
L’apice di questo racconto fotografico, forse il perno attorno a cui ruota tutta la figura di Borges, è indubbiamente esagono degli occhi pesanti, dove la cecità che accompagna non solo lo scrittore, ma gran parte delle generazioni precedenti della sua famiglia, diventa il segno di una crescita, quasi un potere che determina una consapevolezza superiore e quel buio degli occhi amplifica gli altri sensi. La pratica di perfezionare e limare i versi all’interno della mente (unico strumento a sua disposizione), senza appigli materiali, senza penna e carta, è qualcosa di molto vicino alla sfera spirituale, a un tipo di meditazione che tocca livelli decisamente profondi. (…)
La Biblioteca di Babilonia è un enigma inquietante e terribilmente comune, il suo significato scivoloso. Carl Chiarenza, (…) scriveva:
«c’è un punto in cui analisi e spiegazione devono fallire nel tentativo di comunicare ciò che rende grande un’immagine».
Paradossalmente Borges, nel racconto, cerca proprio questo, il fallimento delle parole, strumento, per definizione nato per comunicare idee: le rende oscure come voragini, liquide, inafferrabili. (…) Valeria coglie quest’impossibilità di afferrare quel senso cruciale, la frustrazione di un giovane sciamano che, con occhi da apprendista, continua a indagare l’anima delle cose, sapendo quanto sia lungo il cammino da percorrere.
Mi chiedo se qualcuno/qualcosa abbia davvero prestato attenzione alle preghiere di Borges, o se, al contrario, il nostro destino sia quello di restare irrimediabilmente impigliati nelle più contorte congetture, matasse caotiche e indisciplinate o letali e simmetriche tele di ragno, nell’immutabile esagono della caduta. Che non è solo morte fisica, ma perpetuo smarrimento. Alessandro Pagni
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