Prima di entrare nel vivo è doveroso fare due premesse: la prima è che chi scrive non è un pivellino, ha visto centinaia di concerti in tutte le salse: grandi eventi negli stadi, grandi festival, palazzetti, discoteche e scantinati umidi. La seconda è che penso di essere un po’ di parte perchè gli Editors sono, probabilmente, il gruppo che riesce a emozionarmi di più negli ultimi tempi.

Detto questo, il concerto della band di Birmingham è uno di quegli show che ti prende a pugni dall’inizio alla fine e ti lascia emotivamente stordito.

LQ_DSC_0084Parliamoci chiaro: le canzoni di Tom Smith e soci sono molto semplici – parti strumentali facili al limite dell’imbarazzante – hanno testi non particolarmente ricercati, ma in cui riesci a identificarti con facilità se hai qualche forma di tormento interiore, spesso non si affannano per trovare l’originalità a tutti i costi. Ecco, allora dov’è il trucco, vi starete chiedendo? Chiamatela alchimia, pathos, emozione. Un ingrediente misterioso che rende unici e inimitabili gruppi come loro o, prima ancora, gente del calibro degli U2: chiunque sa suonare meglio, ma nessuno sa suonare come loro. Io lo chiamo saper scrivere le canzoni. Un talento innato, una cosa che se vogliamo fa persino rabbia: c’è gente che studia musica una vita e non riesce a tirar fuori un solo pezzo così azzeccato. Insomma: le canzoni degli Editors non sono nè sofisticate nè originali. Sono semplicemente belle, un po’ oscure, emozionanti. E con quella voce che è il marchio di fabbrica che le rende uniche.

Personalmente trovo inspiegabile che gli Editors non abbiano ancora raggiunto il successo planetario e credo che ci arriveranno presto, ma per me va benissimo così: me li godo ancora un po’ indie, ora che posso ancora dire alla gente con la puzza sotto al naso – quelli che se vendi un milione di copie non si prendono neanche la briga di ascoltarti – che mi piacciono senza che mi ridano in faccia.

E veniamo, finalmente, al concerto; il palco, innanzitutto: pochi e semplici effetti scenici – luci circolari colorate, luci stroboscopiche, fiammate genere home-made, coriandoli e cascate di stelle filanti – in un’atmosfera mediamente scura. Tutto relativamente economico ma molto, molto efficace. Il genere di coreografia che non prende il posto della musica ma ne sottolinea le atmosfere, le valorizza.

Poi la scaletta: molto equilibrata, con quattro o cinque pezzi estratti da ogni album. L’inizio è fulminante: Sugar, Someone says, Munich, An end has a start, Formaldehyde. Alla quinta canzone ero già esausto. L’esecuzione è senza sbavature – del resto sarebbe stato scandaloso il contrario – e i membri del gruppo appaiono carichi e pimpanti. Arriva Racing rats, e una pioggia di scintille che cade dall’alto mette davvero i brividi. Poche e semplici cose. Poi c’è spazio per una parentesi elettronica, molto efficace, con Eat raw meat, In this light and on this evening e Bricks and mortars a fare da alfieri del bellissimo album sperimentale del 2009, quindi si torna a saltare con A ton of love e Bones. Prima della consueta pausa una pioggia di coriandoli accompagna Honesty.LQ_DSC_0074

Il bis inizia con Camera ed esplode nei “Broken hearts smashed on the floor” della bellissima Smokers outside the hospital doors. Tutti cantano “Someone turn me around, can I start this again?”. Poi sembra di potersi riposare un po’ con “Nothing”, ma l’arrangiamento esplode in una versione energica e originale che coinvolge tutta la band dopo il primo ritornello.

Nel finale si balla con Papillon, in una bolgia degna dei live oceanici dei Depeche mode; per quasi dieci minuti, con le luci tutte accese e gli strumenti tirati verso il massimo.

L’impressione è che alla prossima occasione l’Unipol arena non basterà più. Il pubblico, che nelle prime battute era apparso ancora poco coinvolto, alla fine esce senza voce: tutti affannati e felici.

(TESTO E FOTO DI M. RANIERI)

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