La misericordia dell’aspide
La donna riparò nelle sue stanze col cesto dell’incantatore.
Negli occhi d’onice altero un proposito fermo.
Oltremodo sconvolta, la sua figura nobile e succinta si piega sui lini di porpora fenicia. Spento l’oro su polsi e caviglie, perduti rubini e zaffiri dall’ambita corona, non piange l’Impero nè i figli: nelle vene una quieta disperazione d’anima barbara che non concepisce legami. Lo sguardo severo di Bastet divina l’ammonisce dagli specchi, ma Cleopatra si sente Iside in terra e una smorfia di sdegno le si dipinge sul volto. Scoperchia il cesto e accarezza l’aspide come il membro di un re, baciando poi il suo muso serpentino e chiedendo la morte.
“Salve Regina” saluta l’aspide chinando il capo.
“Uccidimi…” supplica lei, mentre l’Egitto langue lontano.
“Per quale motivo dovrei sollevarti dalle tribolazioni che tu stessa hai provocato?
“è un ordine!” sbotta la Regina con tono imperioso.
“Come osi, donna terrestre e senza regno, rivolgerti così ad un Dio?”
“…Mehen, guardiano di Ra, chiedo venia e liberazione…” s’inginocchia.
“Taci, meretrice tra gli uomini. Ascolta le spade che cozzano, il Nilo che piange. Ascolta l’urlo del popolo che maledice il tuo nome. Il deserto e le piramidi parlano della tua superbia e lascivia, di vizi e ingordigia. Giacere col nemico e generare bastardi…che dici?” argomenta truce l’animale.
“Mio Dio, conveniva al mio popolo il talamo straniero. Il terrore di Roma rendeva deste le madri: udivo il lamento dal palazzo, nelle veglie notturne del mio imperio. Ho dovuto sacrificare il mio corpo alla ragion di Stato…”
“Menzogna di carne! Hai sedotto Cesare per uccidere tuo fratello e la bella Arsinoe-giocavate sul fiume da bambine. Preso in groppa Marco Antonio, fiaccato d’amore e abbandonato in mare. Sventurati condottieri figli di Roma che t’hanno dato ascolto! Ma Roma adesso è incattivita: i suoi cani che raspano dietro le porte mangeranno la tua carne!”
“Non permetterlo, Mehen, salvami dallo scempio che faranno del mio corpo e del mio spirito… Fui donna, regina e madre…” implora Cleopatra.
“Con la tua bellezza hai umiliato una moglie e ora Ottaviano punirà la tua tracotanza! Per il costume e le virtù. O forse per astuzia di un principe giusto. Hai reso schiavo l’Egitto che ora sarà il granaio di Roma! E non per amore o ingenuità, non per stupidità o piacere. La rovina di un grande popolo per l’incontenibile vanità di una donna!” continua l’aspide.
“Serpente sacro, io t’invoco in nome della mia stirpe millenaria. In nome di Osiride, in nome dei Tolomei. Non lasciarmi nell’eterno tormento della colpa…che io possa avere tutta l’eternità per abbracciare il pentimento e servirti” disse umilmente.
“Una Regina come serva?! Tenti la mia di vanità adesso? Demonio di femmina…” ribatte l’aspide.
“Se mai qualcosa di me è stato per un solo istante buono…abbi misericordia di me…”
“Ebbene, donna degli Inferi…ti libererò, ma non per vederti brutta e sporca come l’anima tua.Tra trent’anni sulla terrà verrà Cristo, sarà un altro dio a giudicarti e per la mia ignavia, estremo tributo alla tua oscena bellezza, perderò la divinità: con me nascerà il peccato.”
Detto questo l’aspide morse il seno di Cleopatra avvelenandola.
Nel rantolo della morte la Regina sorrise del suo ultimo trionfo.
Delia Cardinale