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Solita panchina in riva al mare, di fronte al faro fasciato di scogli e salsedine: lontano e altissimo, immoto nell’azzurro come un dio meccanico. Serrato l’occhio bionico nel sole meridiano, il dio riposa, mentre la sua veglia dilata giorni tormentosi: si guarda le mani d’artigiano, ruvide e consunte come la chiglia delle navi.

Stridono gabbiani funambolici sul nitore dell’orizzonte, dove il suo pensiero sfuma concetti e contorni.

Pensa a quella barca che non ha mai visto il mare, figlia di un amore acerbo e incosciente, non ha mai avuto il coraggio di venderla..e la pasta abrasiva sul vetroresina di quei fianchi madreperla, come un corpo di donna da innalzare, quando ancora credeva che fosse possibile una qualche comunione tra esseri imperfetti.

Piegando poi il capo, la memoria scolpisce sull’asfalto quell’unico profilo a cui s’è arresa ogni forma di buonsenso… e nient’altro importava al di là di notti d’amore e corse a perdifiato nei boschi. Lei amava i girasoli e la musica, film e poesie…l’espolosione del suo sorriso anni luce lontano: il primo punto che si scuce dalla ferita in fondo al cuore. Prono il dolore di un misero uomo sulle cosce di quella donna, in ginocchio dalla linea del seno fino alla nuca: lentissimo e dolente fluire d’inchiostro ardente, a pensarci.

Eppure le ha voltato le spalle giovanissimo, per affrontare una qualche crocifissione…e morte e resurrezione, sotto l’alito caustico di una follia che gli ha scavato sottopelle infinite trincee. Stringe i punti l’artigiano: quotidiano olocausto a ciò che non ha saputo trattenere…gocce di sangue rappreso per l’oblio, sordo…a preghiere e spergiuri.

Che sia un privilegio il suo immenso cuore in frantumi: il minimo sentire si annida negli squarci, tra le crepe slabbrate dei tessuti…vive di piccole cose dopotutto, dall’abbandono. Pugni o carezze non fa più differenza: tutto è insieme fuori e dentro, degno e vano, come saliva di vento che trascorre. Veleno e ambrosia hanno la stessa misura nella gravosa bisaccia dell’esperienza. E un cuore infranto conosce l’amore fuggendo ciò che ne pretende il nome in scialbe somiglianze. Un cuore infranto conosce le insidie e la paura, il sacrificio e la devozione…è un sarto che fila solo la seta più fine, una tigre solitaria che fiuta i bracconieri, ma non li teme. Si nutre di tutto senza saziarsi mai: tra le pieghe di atrii e ventricoli miriadi d’ogive in alcova.

L’uomo sulla panchina si sente come il faro in un giorno senza fine: un dio maledetto che attende da secoli il tramonto.

Ha pure seguito il canto di sirene ingannevoli, legato all’albero della galea, come Ulisse.

Avrebbe voluto, forse, in fondo, schiantarsi sulle caviglie di una donna bellissima, nata dal mare come Venere.

Ma anche il canto s’è spento, confuso col rumore, corrotto come ogni cosa…

Resta un artigiano con le mani sporche e vuote…e un’assurda, insensata, immensa voglia di vivere…

Delia Cardinale

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