Fotografia di un moderno e triste comunista generico
Aveva sempre preferito la cicala alla formica, Bakunin a Marx, la vaniglia al cioccolato, Pavese a Pasolini, il riso alla pasta. C’era qualcosa di fascinoso nelle scelte poco comuni, ma non ne era consapevole. Aveva cambiato troppe volte colore preferito e taglio di capelli.
Le idee cambiano, ma, come per ogni altra cosa, rispondono a gerarchie sempre più strutturate, in un processo inarrestabile di cristallizzazione. Un trasloco non è come cambiare la carta da parati. Alcuni concetti erano netti e definiti nella mente, ritagliati da tutto il resto, inamovibili, forse genetici. E in base a quelli misurava il mondo, lasciando ogni vera scelta alle sensazioni fisiche. Ce n’era una per ogni situazione, tutte rispondenti ad una specie di logica empirica.
Pensava che Napoleone l’avesse capito: lì, alla bocca dello stomaco, ci sono le gioie e i dolori.
Muta l’entità della fitta: dal trionfo all’abisso, da Platea a Waterloo, nell’arco di un baleno. E si, ci sono più processi che eventi, ma la ragione è tardiva come un rimpianto. Niente è prevedibile-pensava- di fronte allo scempio di tutti i “mai” che aveva infranto. Per i “sempre” non è diverso. Anche se, era convinto di poter ancora morire per qualche bandiera. Abbracciando l’oltranza e l’abiura se il ventre lo impone. Non è amore, nè fede o rinascenza. Niente di codificabile in nessun linguaggio possibile.
Viveva rispondendo a ciò che sentiva in quel momento “giusto” o “sbagliato”, al di là di ogni dogma morale o legge scritta. C’era qualcosa di bestiale in tutto questo, come per la pazzia-direbbe Foucault. Forse era solo il più istintivo tra gli uomini, forse il più autentico. Non serviva la sbornia, nè la macchina della verità o le torture irachene, se pure aveva dei segreti non poteva svelarli per il semplice fatto di non saperli comunicare. Ci aveva provato a volte, con una moglie: ma tornava bambino e annodava le parole, smarrendone la maggior parte. Non si era più sposato. Amava le discussioni nei caffè o meglio ancora in riva al mare con vino scadente in bottiglie di plastica. Tramontata la Boheme il mondo costringeva anche il pensiero ad essere produttivo. Lui e un esercito di finti clochard e irredentisti, a litigare sul lungomare. E davvero non capiva, non capiva gli stracci, i dread e l’ozio di marijuana e stronzate pseudo-filosofiche: non era questo lo spirito. Dov’è l’associazionismo? Nelle cuffie degli I-pod? -si chiedeva, leggendo Platone agli immigrati. Ma loro, avevano da pensare a cose più serie: sopravvivenza e non idee. Allora lui dava calci ai cassonetti e poi rideva. Aveva pure i suoi eroi e le sue donne: a volte perfino coincidevano. Portava rose rosse a Mara Cagol e leggeva la Rowling. Vagheggiava officine sociali alla Fourier o fughe alla McCandless, ma gli mancavano fondi e coraggio. Sognava di sovvertire l’ordine sociale, avendo Hirshmann come guida.
E fanculo falce e martello, fanculo anche il Che. Pensava a Bader e a Meinhof, poi al Tibet, poi agli Hamish. Troppe idee e così variegate da non adattarsi completamente alle sue aspirazioni. Fuga o intervento? Aveva letto troppi libri e non sapeva con chi parlarne. Continuava una vita mediocre agendo per preferenze impulsive, spesso necessarie. Un call-center snervante, pochi soldi e tutta la rabbia di un rivoluzionario solo che, forse, non conoscerà mai la libertà.
Preferiva il tabacco alle sigarette, Caravaggio a Dalì, la birra allo champagne, i francescani ai benedettini, la terra all’asfalto, i fiori di campo alle orchidee, crude verità a dorate menzogne…
Preferiva i silenzi alle parole vane.
Delia Cardinale