Idee regalo
Cammino fra gli scaffali di un negozio di oggetti inutili.
La sensazione che mi assale è di penetrante sconforto.
Cerco, in mezzo al niente che contraddistingue ogni singolo pezzo sistemato sui ripiani, qualcosa da regalare ai miei amici e ai miei cari.
Il senso di scoramento aumenta ad ogni giro, ogni volta che varco un angolo remoto di esposizione e mi si scopre un nuovo settore, ancora una volta stipato di idee regalo, che a me sembrano più dei diabolici marchingegni atti a generare desiderio, senso di utilità inesistente. Idea è un termine troppo nobile, per svalutarlo in questo modo: la parola presuppone una sorta di illuminazione, qualcosa che ti rischiara la mente come le lampadine che si accendevano sulla testa dei personaggi dei fumetti, quando ne avevano una.
La memoria mi richiama un particolare, inatteso, apparentemente insignificante.
Eppure in realtà è il fulcro della questione, oserei dire.
Avevo quattordici o quindici anni: quell’età in cui si è da poco superata la soglia dell’essere bambini e ci si è affacciati a pieno titolo, ma forse ancora timidamente, nel mondo dell’adolescenza.
Quando si è bambini i regali li si riceve, si sa. Quando si cessa di esserlo, magari – accantonata l’idea che sia davvero un omone vestito di rosso a portarceli magicamente dal cielo – la coscienza inizia a suggerirci che se li si riceve sarebbe altrettanto carino ricambiare la cortesia. Io, però, non ero ancora arrivato a questa banale intuizione.
Era una vigilia di Natale.
In casa, per il tradizionale cenone, eravamo solo io, i miei genitori, e mio fratello, mentre tutti i parenti si erano dileguati con scuse varie. Poteva apparire un po’ malinconico, a me che ero abituato a passare la serata in mezzo a tanta gente, e magari lo era.
Scartai i doni che conoscevo già, quelli che avevo chiesto ai miei, che mi ero accuratamente scelto perché gli adulti, oltre una certa età, temono di non essere più adeguati a seguire con adeguata perizia i gusti in continua evoluzione del complesso mondo degli adolescenti.
Tutto bene, tutto secondo copione.
Poi trovai un pacco inaspettato.
Il biglietto, scritto in maniera approssimativa, indicava inequivocabilmente che si trattava di un altro regalo per me; la grafia era quella di mio fratello. Lo guardo e ricevo con un cenno del capo una incitazione ad aprirlo. La forma e le dimensioni della carta non lasciavano dubbi: un disco. Uno di quei preziosi vinili attraverso i cui solchi ho imparato il viscerale amore per la musica: uno dei più bei regali che la vita mi abbia mai concesso. Dentro c’era un album degli AC/DC: qualcosa non esattamente in linea con i mielosi sentimenti natalizi, ma comunque una scossa di energia che calzava alla perfezione sulla mia neonata voglia di ribellione.
Non so quante volte ho ascoltato quel disco.
Non è il prezzo, a rendere un regalo indimenticabile, né l’originalità, la marca, la griffe di qualsiasi stilista alla moda.
Io e mio fratello non avevamo mai parlato di scambiarci doni per Natale: l’idea di farmelo era stata, in sé, una sorpresa fantastica.
È stata quella visione che, per più di vent’anni, mi ha guidato attraverso le colorate giornate dei periodi natalizi, aiutandomi a scoprirne le atmosfere Dickensiane e ad apprezzarne il lato sincero, oserei dire incontaminato.
Stamattina, attraverso questi scaffali carichi di oggetti che serviranno più a rimettere in sesto bilanci di negozi messi alla prova dalla crisi economica che a far felici i destinatari dei doni, non riesco a trovare quello che sto cercando.
E, forse, mi piacerebbe soltanto regalare e ricevere abbracci, quest’anno; ma non quelli di tutti i conoscenti che si incrociano per caso la mattina della vigilia, quando si passeggia per le vie del centro senza meta, o per cercare di colmare le ultime lacune sotto l’albero.
No.
Abbracci non dovuti, non richiesti. Gratuiti. In momenti inattesi ed insignificanti.
Senza senso e senza necessità.
Graffianti ed elettrici.
Come fu quel disco degli AC/DC.
(Testo e fotografia di Manlio Ranieri)
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