C’eravamo al ritorno. Io e te: un cuore di mille anni. E cambia la morfologia del territorio, da regione a regione, sotto un cielo d’artificio, azzurro d’agata e riposo. Luminarie intermittenti, poi, difettose come l’omertà sinaptica di una follia compiacente. Il giardino con le palme morte, uccise dal punteruolo. Una vecchia scuola e tutti gli emigranti con i loro racconti ogivali. E sono smarrita come il mio gatto, nel noto lontano. La Woolf che pretende simpatia dal comodino, nella “stanza tutta per sé”. Io a stupirmi della doppia immagine triplicata, sulle pareti ostetriche delle origini. Il focolare e i libri.  Ed è un dono e una condanna questa sospensione di mangrovia. Due paia d’occhiali sullo stesso scorcio paesaggistico. Mia madre che lavora a maglia, accanto al camino, in un meta-tempo domestico, intriso di tenerezza. E sono tante cose che non posso confessarle: gli occhi su “domanino”, una bella storia scritta bene. Un giorno renderò orgogliosa questa casa, come non lo è stata mai di me: vento irregolare lungo le imposte. Gli occhi di mia sorella nella tasca del giubbotto. E lei non lo sa, ma mi ha salvato la vita. Penso a troppe cose, nel magma della disforia che ormai gestisco come la luna le maree. E loro mi guardano sapendo che tutto questo adesso è una carezza sulle cicatrici.  Una calma lentezza che culla quella parte di me che non conosce armi o distorsioni. È Natale, per me un evento di superficie la cui sola ritualità mi emoziona: la nonna, la tavola imbandita e i sapori dell’infanzia. Ancora troppo freddo per la campagna e le avventure botaniche.  Due vite in bradicardica osmosi parziale. Regina della festa la storia selettiva. Da agosto a dicembre le mille e una notte, ma racconto i dettagli di pochi giorni: resoconto sintetico di vita espunta. Oggi mi godo questa dolcezza, domani la valigia.

Delia Cardinale


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