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Labbra viola, occhi spenti. Sangue o vino, non se lo ricordava. Il biglietto era ancora lì, spiegazzato. Lo guardò e pensò che la risposta era tutta in quella frase scritta in fretta. Lo comprese dalla scrittura, fantasma della calligrafia di sua moglie. Si era fatta più piccola, le lettere compresse una contro l’altra, quanto bastava per essere appena leggibili.
Il telefono squillava ripetutamente. Tutto intorno, tra i vetri rotti e i piatti ammuffiti cercò la giacca. Uscì per strada con passo malfermo, le dita tremolanti mentre salutava la badante rumena del vicino paraplegico che tutto sapeva e tutto vedeva. Un Jeff Jeffries di provincia, solo più vecchio e senza Grace Kelly. Percorse il selciato lentamente, inspirando l’odore del sugo che fuoriusciva dalle case vecchie e piene di spifferi. I grandi portoni sempre aperti sui viottoli silenziosi, il legno rancido su quello che restava dei cardini mangiati dalla ruggine. Camminava senza una meta, seguendo il raggio di luce che si insinuava nella stradina in ombra. Le tempie pulsavano, battevano la grancassa piena di pensieri che si dissolvevano ad ogni colpo. Calciò una pietra che rotolò ai piedi di un altro passeggiatore solitario. “Nino! Come andiamo?”. L’ombra si avvicinò. Piano piano la sagoma si fece sempre più definita, le linee del volto diventarono più marcate incorniciando gli occhi vivi quasi contrastanti con il pallore delle guance. “Dove te ne vai?”, incalzò. Nino non gli rispose, le parole si ridussero ad un ammasso che diventò un grugnito. Un cenno del capo incoraggiò il suo interlocutore a raccontargli una strana storia. “E’ da tanto che mi chiedo che fine hai fatto. Sempre. Maria come sta?”. “Tutto a posto e niente in ordine”, rispose l’altro, con l’unica frase di circostanza che gli venne in mente. “Volevo dirti che sto per diventare ricco, praticamente ho scoperto una cura, una cura per salvare tutta l’umanità, tutte le persone del mondo dalle radiazioni dei telefonini. Le radiazioni fanno male, ci stordiscono, ci fanno fare le cose come vogliono loro. Loro, quelli che stanno lì”. Con l’indice indicò un lampione rotto e intanto si passava la lingua sulle labbra ripetutamente, lasciando che la saliva colasse da un angolo della bocca. “Ah”, Nino era stanco, non voleva starlo a sentire, aveva solo voglia di scendere fino al torrente e dormire con nelle orecchie lo sciabordio dell’acqua che scorreva ignara dei suoi tormenti. L’altro si avvicinò, continuando a vomitargli addosso delle parole confuse, poteva sentire l’odore stantio del camicione di feltro consumato che gli stava troppo largo: “Inzomm, ho lavorato per questo fatto un bel pò di tempo e aspettavo che passavi dalla bottega per farti vedere quello che ho fatto. Mi ha aiutato Enrico che mo è cresciuto e mi ha detto che non vuole venire più da me perchè lo pago poco. Se rimaneva avrebbe visto i soldi, gli avrei dato qualche cosa ma quello pensa ai telefonini, alle ragazze e non gli ingozza di lavorare”. Nino iniziò a manifestare tutta l’insofferenza che salita dal basso ventre convogliava nelle carotidi, mescolandosi al liquido caldo che gli scorreva faticosamente nelle vene. “Mè vabbè, io me ne vado, ci vediamo”. “No, non te ne andare e mo viene il bello. Ho preparato un cuscino, un cuscino pieno di nastro, l’ho preso dalle videocassette, ce ne avevo un centinaio almeno, le ho recuperate qui e là. L’ho fatto tagliare a pezzettini da Enrico, a pezzettini piccoli piccoli piccoli e poi li ho messi nel cuscino e mo dormo con quello e sono salvo, sono salvo perchè la mattina mi sveglio con la testa leggera, senza pensieri e non mi controlla nessuno, sono libero”. La foga lo travolse, serrò la mano sull’avambraccio di Nino che lo respinse con uno spintone. Senza nemmeno rispondere lo lasciò lì a strofinarsi le mani, lo sentì chiamare.
Rincasò in fretta. Realizzò che la pazzia è rarefatta e necessaria come l’aria che respiriamo, come l’odore del ragù e della muffa dei viottoli antichi che stanno lì a ricordarci da dove veniamo. La pazzia è solo un punto di vista, ci salva da un mondo stanco che non comprendiamo, dal quale ci difendiamo con la celluloide di vecchie cassette impolverate. Entrò nell’appartamento buio sbattendo la porta, raccolse l’immondizia accatastata sul tavolo e la ammucchiò nel lavandino della cucina. Prese il foglietto e vide le parole scomparire lettera per lettera, risucchiate dalle calde spire della fiamma, poi lo gettò tra i rifiuti. In preda ad una sorta di febbre che gli aveva restituito le energie andò in camera da letto, rovistò tra i cassetti fino a quando non trovò una videocassetta. Maria era in abito bianco, bella ed illibata. Lui con i capelli impomatati e le mani ferme mentre teneva le sue. La fece a pezzi, ne tagliuzzò il nastro e lo nascose tra i batuffoli di lana del cuscino.
La copertina: Francesco De Gregori, Rimmel