L’ora, il giorno, la sindrome di Cotard. Ieri il grammofono sputava farfalle colorate, adesso tace. Estinti tutti i vinili, i carillon e la musica a manovella: i suoni digitali, che cerchi come un artigiano, con le mani sporche. Di fronte al cassetto dei colori, rivoluzionario della materia. Li scegli con cura, ricordando. E tante tinte la memoria le sfuma e trasforma. Ricordi allucinogeni come i sogni dell’infanzia e l’alopecia mentale. Ogni colore una trasfigurazione simbolica. La devozione della scelta commuove le pareti, come a comporre il bouquet per la tua sposa: ci vuole il senso più alto d’armonia, che lei a guardarli versi una lacrima di gioia, avessi messo in ordine crescente ogni filo di bellezza che t’ha strappato un sorriso dal giorno in cui sei venuto al mondo. Sorridi al pensiero di quella sposa in bianco, perché non t’è concesso. Lei è andata via quella volta: un cenno con la mano alla stazione. E avresti voluto essere quel treno per averla dentro, come se non bastassero le metafore. Questa quieta rabbia, tra colori che sbiadiscono. E c’è una festa fuori, ma non t’importa. Non oggi, che il pensiero si chiude su se stesso come un riccio, per proteggere il ventre vulnerabile e insieme guardarlo da vicino. Neanche l’infelicità è concessa: c’è così tanto intorno che saresti un ingrato. E per la prima volta hai sofferto la gelosia: perché un uomo per strada gode la carezza della sua donna? Un raccoglimento, una cura… E t’ammanti di cinismo perché le hai creduto. Poi ti prende comunque la tenerezza: sarà più felice così. Avrà dei bambini, un brav’uomo, una bella macchina e anche il garage. Perché non credi ai pretesti. Ricordi quel pezzo che scrivesti sull’amore e ti mordi la lingua. Il sabato era per voi.

Canta adesso il grammofono, le note tristi e sommesse di un requiem infuocato.

Delia Cardinale

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