U2 – Torino, 5 settembre 2015
Siamo una band che viene dalla parte nord di Dublino, ci chiamiamo U2.
Sono circa le 20:40 quando i 4 irlandesi attaccano “Out of control”, seconda canzone in scaletta, presentandola e presentandosi come facevano 35 anni fa, ancora sconosciuti al mondo. Sono decisamente invecchiati, i quattro ragazzi, Bono sfoggia una capigliatura biondo-platino da manichino (inguardabile, c’è da dire) ma le note che risuonano nell’aria sono quelle del 1980, quelle con cui è iniziato tutto, e la chitarra di The Edge è quella a forma di losanga che campeggiava nei video degli eighties.
Lo si è capito subito che sarebbe stata una festa. Una festa per pochi intimi, di quelle in cui all’ingresso c’è il buttafuori che seleziona gli invitati: sì, perché ventimila posti, per una band come gli U2, sono un’inezia, come voler fare un gran ricevimento di nozze ma doversi accontentare del salone di casa.
Eppure questa scelta ha, indubbiamente, dei risvolti positivi: chi era dentro, l’altra sera, era uno che ha lottato con i denti per avere il biglietto, uno che conosce le vie e le scorciatoie riservate ai fans più affezionati. Era uno, in sintesi, che c’era perché non poteva rinunciarci.
E’ questa l’impressione che ho avuto fin dalle prime battute, la differenza abissale che ho riscontrato rispetto a tutti gli altri concerti degli U2 a cui ho assistito finora: è stata una splendida serata fra vecchi amici, di quelli speciali, di quelli che non tramontano mai anche se la vita ti ha portato a separare le strade, di quelli che invecchiano insieme e cercano di prendere con filosofia la cosa.
Del resto ieri Larry Mullen ha dichiarato che gli piacerebbe che il futuro della band fosse fatto di show nei palazzetti e non più negli stadi – in completa controtendenza rispetto alla moda dei mega-eventi di tutte le grandi rockstar – dimostrando che per loro i concerti sono ancora un piacere, non un mestiere: in questo modo, infatti, si triplica l’impegno a parità di incassi, ma (ce ne siamo resi conto tutti) si amplifica anche il contatto col pubblico, l’interazione, il calore trasmesso reciprocamente.
Lasciamo da parte, dunque, tutte le considerazioni puramente critiche – la voce di Bono non è più quella di una volta, “One” è stata estromessa dalla scaletta – e godiamoci lo spettacolo consapevoli di essere dei privilegiati.
Abbiamo assistito a un inizio al fulmicotone, con “The Miracle (of Joey Ramone)”, “Out of control”, “Vertigo” e “I will follow”, i quattro musicisti in piedi su un palco minimale, solo una grossa lampadina che pende dall’alto sulla testa di Bono, quasi a mettere in chiaro le cose: la musica, prima di tutto. Dopo – soltanto dopo questo inizio volutamente “povero” – c’è stato spazio per gli effetti speciali, con quel maxi-schermo/passerella che faceva da scenografia alle passeggiate di Bono nella sua vecchia casa dell’adolescenza e fra le foto della madre mentre cantava “Iris”, “Cedarwood road” e “Song for someone”. A questo proposito va detto che i pezzi dell’ultimo album, dal vivo, funzionano benissimo, hanno la carica giusta.
La versione di “Sunday bloody sunday” che è seguita era bellissima. Lo so che in molti non saranno d’accordo con me, ma dopo averla ascoltata mille volte nell’originale mi è piaciuta molto questa idea di suonarla praticamente in mezzo al pubblico con strumenti minimali. Sì, perché a questo punto del concerto, gli U2 erano sempre sulla passerella che fendeva la folla di spettatori, per cui ovunque ci si trovasse, sul parterre, i componenti del gruppo erano praticamente a due passi.
Come se non bastasse Bono ha preso prima con sé una ragazza a ballare e poi quattro musicisti pescati fra gli spettatori a suonare “Desire” insieme alla band. Una festa per amici, come si diceva: a questo punto l’impressione non può che essere confermata.
Dopo una bella versione per pianoforte e voce di “Every breaking wave” la prima parte dello show si è chiusa nel tripudio di “Where the streets have no name”, “Pride” e “With or without you”, con tutta l’illuminazione puntata sul pubblico che cantava insieme al gruppo: ancora una volta i festeggiati e gli invitati, tutti insieme, quasi non ci fosse differenza fra chi è sul palco e chi sugli spalti.
C’è tempo ancora per “City of blinding lights”, “Beautiful day” e “I still haven’t found what I’m looking for”, dove è comparso sul palco Zucchero, amico di Bono dai tempi del “Pavarotti & friends”: me lo sarei risparmiato ma in una serata così, quasi quasi, riesce ad essermi simpatico persino lui.
Al di là della cronaca, della scaletta, dell’esecuzione le due date di Torino hanno avuto un sapore speciale, inedito, anche per chi come me è alla sesta esperienza insieme ai Dublinesi. O forse dovrei dire la prima, perché alle altre cinque eravamo loro da un lato e noi dall’altro della barricata; qui invece eravamo, effettivamente, insieme.