Amore chimico di Davide Venticinque (parte 2 e link altre parti)
Quarta di copertina
«Ho rimorchiato una tipa» le disse, era per la coca, non si vantava di solito. Ma Rossana lo sapeva e lo capiva, era quello il bello. Con certe persone sai di non essere mai sbagliato.
L’amore ai tempi della droga è un modo per toccarsi senza essere realmente vicini. Amore chimico è la storia di giovani in cerca di risposte e identità, in precario equilibrio sul filo della vita.
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è possibile riprodurre in parte citando la fonte.
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(segue da parte 1)
Stava osservando la sua struttura nel capanno Lana. Aveva tirato su un’impalcatura in travi di noce, progettava una scuola. Aveva letto un articolo sulle scuole steineriane.
Steiner nei primi del secolo scorso aveva fondato degli istituti scolastici in netta controtendenza con le teorie educative di allora. Spazi armoniosi, arti creative. Facevano disegnare i bambini con le mani, che immergevano in secchi di colore, recitavano, cantavano, giocavano all’aperto. Era forse un microcosmo lontano dal fascismo di quegli anni tristi.
Era soddisfatta ma solo parzialmente. Sapeva esserlo solo così, in tutto ciò che faceva. Dava sempre il massimo, per lei era una questione di dignità, di rispetto verso se stessa. Non riusciva mai però a trarre una felicità vera dai propri successi. Era stata sempre la prima del suo corso, aveva mancato solo una lode e ci era rimasta di merda., era fatta così. Lavorava come una pazza curva sui libri, al tavolo da disegno e in quel cavolo di capanno. A volte per giorni senza fermarsi. Come faceva Marco a sopportarla non l’aveva ancora capito.
Marco entrò con la sega a motore.
«Sei davvero sicura? Guarda che poi ritirare su ‘sta trave è un casino.»
«Buttiamola giù. Scusa per il lavoro in più tesoro.»
«Il lavoro non è mai in più o in meno…» disse lui.
«È solo lavoro» continuò lei e Marco mise in moto la sega.
Le piaceva l’odore del legno. A volte quando andavano a comprarlo trovava quello tagliato di fresco. Non era buono per lavorarci ma aveva un odore fantastico. Ci poggiava la faccia e tirava su forte il respiro. Accarezzava il tronco e diceva cose del tipo: «Mi dispiace nobile albero». Quasi commossa, Marco la prendeva in giro, ma lei sapeva che la amava anche per quello.
«Che dici, telefoniamo al tipo? Si chiama Matteo vero? Gli chiediamo se vuole venire a cena» disse Marco asciugandosi il sudore e togliendosi gli occhialini da lavoro.
«Che devo preparare?»
«Fai lo sformato che piace a me.»
«Sì, ma digli che siamo vegetariani quando lo chiami, così se ha voglia può portarsi qualcosa da casa. Hai visto quanto è grosso? Magari oltre lo sformato si mangia due bistecche.»
«E tu che ne sai che è grosso?» disse lui andando verso la porta che dal capanno dava alla cucina.
«Ne so che l’ho visto, ecco che ne so!»
«La vuoi una birra?» lui, tornando con una bottiglia per mano.
«Perché tu non l’hai visto l’altra sera?»
La birra era fresca come solo dopo un lavoro faticoso sa esserlo.
«Non lo ricordo» fece Marco alzando le spalle.
«Tu non ricordi mai un cazzo» disse Lana sorridendo e guardandolo di lato mentre beveva la birra.
Lui si asciugò le labbra col dorso della mano.
«Che ne dici allora?» indicando il telaio della scuola.
«Non sono convinta.»
«Non avevo dubbi.»
Si svegliò presto Matteo, gli capitava sempre quando non dormiva solo. Non avevano lo spazio necessario le sue gambe e le sue braccia, ed era costretto a stiracchiarsi. Poi si metteva su a sedere, e a guardare chi era al suo fianco. A volte gli era andata peggio, la mattina, quando il trucco è andato. Silvia non aveva né occhiaia né sbavature di nero. Era bella davvero, con il lenzuolo che le scendeva sulla spalla e un piede che faceva capolino in basso. Matteo si alzò, la coprì meglio e le scrisse un biglietto che posò sul cuscino. Poi si vestì e scese per strada.
Gli piaceva portarsi addosso l’odore del sesso. Ricordava la scena di un film, Killing Zoe, in cui un tizio diceva a un altro di non lavarsi e scendere di corsa, che a Parigi la gente ti rispetta di più se odori di uno che ha appena scopato. A Matteo non fregava del rispetto della gente in quel momento, gli andava solo di tenersi l’odore di Silvia nel naso. Era stata grande, si erano divertiti. Il cazzo tornò a farsi duro, lui lo mise a posto ed entrò nel Caffè. Ne bevve uno e ne prese altri due per casa, più un cappuccino, non conosceva i gusti di Silvia ma presto gli sarebbero stati svelati. Due paste calde più una che mangiò per strada.
Entrò nell’edicola e prese “La Repubblica” e “Il Sole 24ore”, come tutte le mattine. Il giornalaio lo salutò e gli diede il resto, mentre lui buttava un occhio alle riviste per adulti.
Uscì a passo lungo, non voleva che Silvia si svegliasse che lui non c’era ancora.
Quando fu rientrato si sedette sul letto, lei si fece piccola e sorrise.
«Sei uscito… Che profumo, hai preso le paste?»
«Cioccolata o crema. Cosa preferisci?»
«Crema.»
«Caffè o cappuccio?» chiese alzando i bicchieri termici.
«Cappuccio.»
Non poteva durare. Se preferiva il cappuccino al caffè non poteva durare, pensò Matteo tra sé. Riuscì persino a sentirsi malinconico mentre beveva il secondo caffè della giornata.
Preparava lo sformato Lana, aveva tagliato a piccoli pezzi melanzane, zucchine, pomodori e patate, cicoria raccolta nell’orto di casa e cipolla in quantità industriale. Non sapeva se era una buona idea affittare la legnaia. Ciò non toglieva che si sarebbero goduti una buona cena. Buttò un po’ di farina sulla pasta sfoglia. La girò sul tagliere che le aveva fatto Marco e vi diede di mattarello. Aveva aperto una bottiglia di Primitivo, se ne versò un bicchiere, andò allo stereo appoggiato alla parete e mise un disco, vinile, grazie a Dio se ne erano salvati. Janis Joplin cominciò a cantare Piece of my heart. Ruotò il collo, non poteva fare a meno di muoversi quando ascoltava quella musica, era come una carezza forte sulle corde dell’anima.
Il vino era buono, aveva tre ore davanti per preparare la cena e fare una doccia, magari un bagno. Chissà che tipo era Matteo. Un estraneo a casa, affianco casa, va’! Vedremo.
Le piaceva cucinare, l’aveva sempre fatto. Fin da piccola, affianco a sua madre. Col tempo era diventata brava, poi era andata a vivere da sola e aveva scoperto i suoi gusti sperimentando, mischiando i sapori. Era stata prima a Urbino, le piacevano le montagne verdi, il fitto del bosco, il silenzio nelle orecchie e nella testa, nei pensieri. Aveva vissuto in una piccola casa di legno, col pavimento leggermente in discesa. Non poteva usare mobili con le rotelle, ma era un piacere giocare con il suo gatto Suspicio. Metteva una biglia in terra e il gatto si accucciava lì vicino. Poi lei lasciava semplicemente scivolare la biglia e Suspicio le andava dietro e cominciava a fare il matto, che scemo che era quel gatto. Lo aveva adorato, la seguiva ovunque, libero ma sempre al suo fianco. Per mesi era stata la sua unica compagnia. Poi come sempre accade aveva conosciuto una ragazza, poi altre due, e un tizio che aveva un forno, dove andava sempre a prendere il pane, un vicino di casa, una compagna di corso, un uomo. La sua vita si era riempita di saluti, inviti a cena, telefonate e persone da vedere per l’aperitivo. Non si è mai soli per tanto. Un gatto può aiutare.
Dopo due anni Urbino le era andata stretta, era tanto piccola da non poter far a meno di conoscere tutti. Aveva poca scelta, tutto qui.
Era andata via sapendo che forse non avrebbe più trovato quei tramonti solitari in cui il bosco inghiotte il sole.
Bologna non era stato un caso, le andavano le sue misure, il rumore di fondo che avevano le sue strade. C’era stata a trovare una sua compagna di corso che aveva lasciato Urbino prima di lei. Ci si era trovata subito. Poi aveva incontrato Marco.
Lo aveva notato lei per prima, aveva sempre scelto i suoi uomini. Non che ne avesse avuti tanti, o che facesse chissà che per abbordarli. Delle volte basta poco, per far prendere a qualcuno l’iniziativa. Lana sapeva cos’era quel poco.
Marco era bello, intelligente, con i piedi ben saldi per terra, di ottima famiglia. Forse non aveva le sue intuizioni o la sua tenacia, era un gregario, tendeva più a seguire che a decidere. A Lana questo andava bene, lei preferiva avere il controllo, e poi lui l’adorava.
In due è tutto più facile, fare la spesa, verniciare casa, dormire la notte quando i demoni ti corrono dietro e sembrano non fermarsi mai.
Lei aveva la sua vita e Marco la sua, bastava farle viaggiare affiancate.
Il telefono squillò che Matteo era in macchina.
«… azzo. Pronto? Chi parla?»
«Che c’è ti stava cascando il telefono?»
Dall’altra parte una voce di donna che lui non conosceva.
«Veramente stavo andando a sbattere. Ma chi sei?»
«Giusto. Mi chiamo Lana. Ci hanno dato il tuo numero nel bar del Gresso. Cerchi ancora casa?»
«Sì che la cerco.»
«Sei libero per cena?»
«Sì.»
«Vieni a trovarci e ne parliamo. Abbiamo appena ristrutturato la legnaia affianco casa, non è niente male, è venuto fuori un appartamento di cento metri quadri.»
«Abitate vicino al Gresso? E siete tu e chi?»
«Cento metri più avanti al Gresso c’è una svolta a sinistra, la imbocchi vai avanti e ti trovi la casa sulla destra, saranno trecento metri al massimo. In casa siamo io e Marco, il mio ragazzo, ma la legnaia ha un ingresso indipendente.»
«Bene. Che vino porto?»
«Rosso. Vedi che siamo vegetariani, non cucino carne se non puoi farne a meno portala pronta.»
«Posso farne a meno. Alle nove?»
«Alle nove va bene, a dopo allora.»
«Ciao.»
«Potevi anche chiamarlo tu» fa Lana a Marco mentre riaggancia.
«Non vedi che sto facendo?» Marco era curvo su un tavolo lungo tre metri. Ci stava lavorando da venti giorni ed era quasi finito. Lo aveva avuto commissionato da un avvocato di Bologna. Era scuro e pesante, con cerniere a vista antiche. A Lana non piaceva, sembrava dovesse andare dentro un castello e non in un appartamento del centro, ma i gusti son gusti.
«Che ti è sembrato?» chiede Marco.
«Boh?! Vedremo. Non si porta le bistecche da casa quanto meno e mi ha chiesto che vino portare.»
«Secondo te si portava le bistecche da casa?»
«Non si sa mai che tipi incontri.»
«Esagerata.»
«Consapevole,» fa lei «comunque potevi muovere il culo e chiamarlo. Io ho dovuto lasciare lo sformato nel forno acceso.»
«Non è che brucia vero?»
Lana si avvicina al forno e si piega, dai pantaloni aderenti le spunta l’orlo del perizoma.
Marco lo vede e sorride.
«Chi era al telefono?» chiede Silvia mentre è in macchina con Matteo.
«Una tizia. Stasera vado a vedere un appartamento.»
«Posso venire anch’io?»
«Non so se è il caso… Finisco presto comunque, se vuoi dopo cena ti chiamo.»
«Ah, ci ceni anche?»
«Vedi che sono una coppia, affittano la legnaia che hanno appena ristrutturato. La zona non è male… E poi che c’è sei gelosa?»
«Nooooo! Scherzo. Chiamami dopo cena.»
Lei si avvicina e gli dà un bacio sulla guancia, poi tira fuori la lingua e gliela passa sull’orecchio mentre gli accarezza la coscia.
«Scendi prima che ti scopi» dice lui guardandola mentre rallenta. «È qui vero?»
«Sì, sei stato un tesoro ad accompagnarmi. A dopo allora, così mi racconti.»
«A dopo.»
Lei scende e chiude la portiera, si allontana piano, sale le scale che danno nel dipartimento di medicina, poi si volta e lo guarda. Lui sorride, anche se lei non può vederlo, e forse lei fa lo stesso.
Ingrana la prima, guarda a sinistra e riparte…
Parcheggiò poco dopo in via Belmerolo, la sera era piena di studenti e gente a spasso nel quartiere universitario, nell’aria limpida di inizio estate. La stagione migliore per Bologna.
A piedi tagliò le viuzze del centro, fino a San Petronio Vecchio. Studenti e studentesse, indiani sorridenti vicino i loro negozi di frutta e verdura, punkabestia barcollanti e con la voce roca. I portici, i loro odori e rumori.
Entrò nell’Antica Drogheria, nel naso di Matteo d’un tratto si fecero largo sentori di legno e caffè, di zafferano e passito. Uno sguardo alle bottiglie esposte, rosso, prese un Primitivo, con la verdura ci poteva stare. Non troppo pretenzioso ma ricercato e poi a lui piaceva. Uscì dopo aver pagato e tornò alla macchina, accese lo stereo, i Rolling Stones e la voce di Mick Jagger lo accompagnarono lungo la strada.
Gli era sempre piaciuto andare in macchina. Certo il traffico era stressante, ma non appena ci si allontanava dal centro e dai viali, il respiro sembrava allargarsi, lo sguardo andare più lontano. Lo affascinava l’umanità che vedeva, di sfuggita, dal finestrino. Mille vite, gioie, speranze, problemi.
Ogni uomo e ogni donna a pensar bene sono al centro dell’universo.
Prese via Emilia Ponente e sempre dritto, oltre l’ospedale Maggiore coi suoi dolori e calvari, oltre l’hotel e la pizzeria dove un paio di volte era stato a mangiare, sempre dritto, sempre più fuori città. Voltò a destra e prese per San Giovanni in Persiceto. Attorno a lui la pianura, la Bassa, come dicevano lì, cominciò ad accoglierlo. Era come se il caos della città non ci fosse più, come se le auto che gli facevano compagnia fuggissero e lui con loro. Gli sarebbe piaciuto abitare da quelle parti, non fosse altro per la sensazione di fuga e di ritorno che avrebbero avuto le sue sere.
Era tutto pronto, a Lana piaceva fare le cose per bene.
Il lungo tavolo che Marco aveva fatto con le proprie mani era apparecchiato con una tovaglia bianca bordata di giallo. Due candelabri, Marco aveva sempre avuto la fissa per il lume di candela.
La stanza era ampia, ordinata, i cesti di pane caldo sul tavolo lasciavano andare un odore di buono, il forno era acceso al minimo. Il vino aperto, lasciato ad ossigenare. La tv era spenta, lo stereo girava, il jazz leggero di Bollani su cui poter parlare.
La cena andò come andò. Suonò un campanello, si aprì una porta. Ci furono strette di mano e frasi di rito.
Carina lei e che buon gusto per la casa. Pensava Matteo.
Madonna se è alto! E questa era lei mentre giocava con una ciocca di capelli.
Svolgevano i pensieri i loro fili dietro le frasi.
L’ambiente era caldo e accogliente. Grande la sala di ingresso con volte alte e travi scure e solide. Particolari strappati ad altri posti rompevano la monotonia di un vecchio casolare tirato a nuovo e trasformato. In un angolo c’era persino un’amaca, sospesa fluttuante tra due travi. Mobili bassi e mobili alti a separare gli ambienti, colori soavi, aria pulita. Fotografie alle pareti. Un leggero profumo che veniva dal forno.
«Gran bella casa.»
«Grazie, l’abbiamo praticamente fatta noi. Lana immaginava ed io costruivo.»
«Bella davvero» dice ancora Matteo guardando lei.
«Grazie per il vino. Ci hai preso, è quello che preferiamo» lei abbassando lo sguardo.
«Ascolta vuoi vedere ora la… casa. Bisogna mi abitui a non chiamarla legnaia, non le rende giustizia» dice Marco a lui.
Come cavolo si è messo a parlare Marco? Ha fumato senza dirmi niente o cosa? Pensa lei.
«Se a voi va bene possiamo prima cenare.»
«Bene. Apro il vino, noi ne abbiamo dell’altro. Lo compriamo da un contadino in Puglia. È biologico» dice Marco mentre stappa la bottiglia.
«Pensa te!» fa Matteo «fino a pochi anni fa non si sentiva neanche parlare di biologico. Ora è diventato un business.»
«Il fatto» dice Lana «è che non si può mangiare quasi più nulla. Noi coltiviamo quello che possiamo. Ma sta sicuro che veleni ne mangiamo anche noi.»
«Dai magari stasera no!» fa Matteo sorridendo.
Che stupido. Pensa lei e sorride.
«Buono» fa Marco schioccando le labbra dopo il secondo sorso.
«L’ho preso in Petronio Vecchia però, dubito venga da un contadino pugliese. Quantomeno è imbottigliato all’origine.»
«Dopo assaggi il nostro, è più aspro.»
Se il vino era buono la cena era squisita. A vederla Lana non sembrava una che andava d’accordo con i fornelli, con la passione che sembrava avere poi, per il suo lavoro. Era una donna di talento. Poco loquace ma diretta e franca. Mai sgarbata, scomposta.
Marco pensava: sembra uno a posto. E uno con i soldi. L’ultima cosa che voglio è uno che non mi paga l’affitto e sono costretto a cacciare di casa con l’accetta.
Brava che sono! Pensava Lana. Anche lui sembra aver gradito. Non ha detto quasi una parola mentre mangiava. A dire il vero non sembra uno tanto loquace. Uh… “Mister Mistero”! Che stupida che sono…
«Vuoi un brandy?» Chiede Marco.
«Grazie ma bevo ancora un po’ di vino. È buono.»
«Te lo dicevo io.» Fa Marco stiracchiandosi, è quasi sbronzo ed è contento, da un po’ ha un sorriso leggero disegnato sul volto. Aveva lavorato tanto e ci poteva stare. Era a proprio agio tra l’altro. Aveva temuto di trovarsi davanti un rompicoglioni. Il tizio invece non era male tutto sommato.
«Come è che si chiama tuo padre?» dice quasi senza accorgersi a voce alta.
Cosa cazzo c’entra ora? Pensa Lana.
«Calogero,» fa Matteo sorridendo «no scherzo, si chiama Giovanni».
Lui è quasi ubriaco e lei quasi non beve, pensa. «Passami il tuo bicchiere» dice allora a Lana.
Lei glielo allunga. Lui sfiora le sue dita. Sottili. Affusolate.
«Andiamo alla legnaia? Pardon alla, tua forse nuova casa? Mi sa che un po’ d’aria non mi fa neanche male» dice Marco tirandosi su.
«Andiamo pure» stringendosi tra le spalle e poi alzandosi Matteo. Era leggermente euforico ma ci stava dentro. Era tarato su altri ritmi. Spesso gli capitava di pensare che se non era morto con quello che aveva mandato giù non sarebbe morto neanche con le cannonate. Era uno a posto lui, dritto come una sequoia in un bosco.
Che cavolo di pensieri gli passavano per la testa. Doveva essere per il vino e per un istinto di corteggiamento forse. Due uomini e una donna in un casolare. Smettila coglione dice a se stesso.
L’aria era fresca. Rumorosa la notte di grilli. Il cielo era una volta di stelle piccole e lontane. Soffice il rumore dei loro passi sull’erba bagnata appena.
L’edificio era stretto e lungo. Alto due piani. Sopra, un finestrone semicircolare. La porta d’ingresso era a due battenti in legno chiaro. Bianche le pareti illuminate dalla luna.
Marco apre la porta. Odore di legno. Di nuovo.
«Bisognerà lasciare un po’ aperte le finestre» dice.
«Amo questo odore» Matteo subito dietro lui.
Anch’io. Pensa Lana con le braccia strette al corpo entrando.
Poi fu la luce. Gialla e forte. Era bello. Lo era davvero.
Una greca in legno larga una decina di centimetri correva lungo tutte le pareti. Era un unico ambiente lungo quindici metri per otto, forse nove di altezza.
La parte dell’ingresso che avevano sopra la testa era soppalcata per un’altra trentina di metri quadri. Lì dovevano aver ricavato la stanza da letto.
Due gradini davano dall’ingresso al salotto, con un divano e una poltrona chiari, un tappeto di iuta e un tavolo di vetro basso con sopra una vecchia tv gialla sopravvissuta dagli anni settanta. Una libreria dietro i divani sul lato sinistro e una porta. Il bagno pensa Matteo.
In fondo alla sala un angolo cottura, separato dal resto da un muretto ricoperto con un piano in legno chiaro. Una finestra larga. Altre finestre erano sul lato destro, due, e una su quello sinistro, questa a porta.
«Non ditemi che là dietro c’è un orto!»
«Qualcosa del genere» dice Lana. «Comunica con il nostro giardino ma abbiamo tirato su una rete divisoria ombreggiante. Ci si può prendere il sole e piantare qualcosa, è una figata.»
«Già» dice lui cambiando stanza. «Posso?»
«Vai pure» fa Marco. «Sopra c’è la stanza da letto. Vedrai che bella finestra. L’ha disegnata Lana. Peccato che è buio e non c’è il sole. Ha dei vetri colorati che danno un effetto davvero bello. Vero tesoro?»
«Vero» fa lei. «Volete un bicchiere d’acqua?»
«Io sì» fa Matteo uscendo. È entusiasta della casa e loro gli sembrano davvero tranquilli. Anche a loro lui piace. O almeno così crede di aver capito. Spera non se ne escano con qualche ‘Vediamo’ o ‘Ne parliamo tra qualche giorno’. Lui è preso bene. Spera solo non gli chiedano un pacco di soldi.
Quando torna da fuori Lana gli porge il bicchiere d’acqua. Lui sta per prenderlo. La guarda un istante negli occhi e lei posa il bicchiere sul tavolo distogliendo lo sguardo. Allora lo fa anche lui e guarda quel cavolo di bicchiere.
Che cazzo fai? Non essere il solito stronzo. Pensa. Non la conosci neanche, guardarla fissa negli occhi potrebbe metterla in imbarazzo. Potrebbe razza
di idiota? Ha appena distolto lo sguardo! Vedi di perdere ‘sta casa per il tuo cazzo che non fa che tirare.
«Mi fai vedere su?» fa girandosi verso Marco che ha già un piede sulle scale.
«Vieni.»
Salgono su, Lana rimane sotto. Sciacqua i bicchieri e li rimette a posto. Apre il frigo, non c’è rimasto tanto, bisognerà dargli una pulita prima che si trasferisca.
Tra sé pensa: Ah, perché hai già deciso che viene a stare qui? Beh, non è male alla fine. Un estraneo è sempre un estraneo da avere in giro. Ma a pelle sentiva che poteva andarci d’accordo, si sentiva a suo agio con lui e poi era davvero carino.
Sorride. Certe volte si divertiva solo facendo la stupida.
Ora scendono dalle scale. Prima Marco e poi lui. Lei si volta verso di loro.
«Devo trasferirmi qui ragazzi. Ne sono innamorato.»
Dice Matteo facendo attenzione a guardare Marco mentre parla.
«Non ve ne approfittate spillandomi un sacco di soldi. Sempre che io a voi vada bene.»
«Per me si può fare» dice Marco.
«Tu che ne dici tesoro?»
Era stata tutta colpa sua, pensò in seguito Lana. Solo colpa di Marco in fondo.
Avrebbero potuto parlarne in privato, magari appartarsi un attimo o prendersi un giorno per pensarci e richiamarlo l’indomani. Cosa doveva dire lei? Lui aveva già detto sì. O forse le cose sarebbero andate comunque in quel modo. A volte non si può fare altro. A volte siamo noi che determiniamo le cose. A volte gli avvenimenti determinano noi.
«A me va bene. Ma per l’affitto fate voi. Non sono cose che competono a una signora.»
Era fatta. Matteo aveva trovato casa. Gli vennero in mente le parole di una vecchia canzone di Fossati.
«Cinquecento euro al mese,» dice Marco«due mesi di cauzione e una stretta di mano».
Poteva andar peggio, pensa Matteo, e gli stringe la mano.
«La stretta te la do adesso. Per i due mesi di cauzione ora che andiamo di là ti stacco un assegno.»
«Bene» fa Marco.
«Abbiamo una bottiglia di Fragolino in fresco ti va?»
«Perché no!»
Escono. Lana spegne le luci e si tira dietro la porta.
Presto non sarebbe più potuta entrare là dentro come fosse casa sua. Le piaceva quel posto. L’aveva creato lei, quasi dal niente. Da un vecchio rudere dimenticato. Chi lo avrebbe detto. Ci voleva sudore, tempo,
immaginazione, anche le cose corrose dal tempo potevano tornare ad essere fonte di gelosia. Era quasi gelosa dell’uomo che lì avrebbe vissuto…
DUE ANNI
Passarono due anni i tre in quelle case. In quell’orto, in quel posto che l’inverno si copriva di nebbia quasi a nascondersi dal resto del mondo.
Due anni, giorno su giorno… su giorno. Cortesia e sale prestato e periodi in cui non si incrociavano neanche… e studio… e lavoro e orari pazzi e tanti treni presi…
Donne… Cortesia e ancora cortesia. Qualche cena assieme, e le volte in centro a bere una birra… e poi dal Gresso, a tirar chiacchiere coi vecchietti. E dolori. Come sempre avviene.
Vicini di casa. Splendidi vicini di casa.
Poi una sera, sul finir di un’estate, Lana e Matteo si baciarono.
Continua…
( parte 1) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-1/
(parte 3) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-3/
(parte 4) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-4-2/
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