Amore chimico di Davide Venticinque (parte 5 e link altre parti)
Quarta di copertina
«Ho rimorchiato una tipa» le disse, era per la coca, non si vantava di solito. Ma Rossana lo sapeva e lo capiva, era quello il bello. Con certe persone sai di non essere mai sbagliato.
L’amore ai tempi della droga è un modo per toccarsi senza essere realmente vicini. Amore chimico è la storia di giovani in cerca di risposte e identità, in precario equilibrio sul filo della vita.
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è possibile riprodurre in parte citando la fonte.
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(segue da parte 4)
SUL TETTO
Matteo e Lana sono sdraiati sul tetto di casa, sotto un cielo pieno di stelle, hanno appena fatto l’amore, i vestiti sono sparsi tutto attorno e loro sono nudi.
Una leggera brezza accarezza i loro corpi. Non parlano, stanno in silenzio, la foga e il piacere ha tolto loro ogni cosa che c’era da dire.
A un certo punto lei si alza e si siede sul comignolo, a gambe incrociate, guardando lontano verso le luci della città. Distende il collo indietro, respira aria buona.
Lui si accende una “paglia”, si sente leggero, in pace, ha l’odore di lei addosso, come una patina sottile che lo avvolge e lo fa brillare.
Non è mai stato meglio. Non sa cosa aspettarsi e non si pone il problema, le cose andranno come devono andare, come sempre accade.
Tutto immaginava tranne quello, eppure era successo.
L’aveva desiderata dal primo istante che l’aveva vista. Non si sentiva in colpa verso Marco, lo conosceva appena seppur da due anni, non si potevano definire amici, erano su diverse lunghezze d’onda.
Lei aveva un corpo fantastico, quasi non ci credeva, si ripeteva che era la situazione, il far tutto di nascosto. Eppure c’erano attimi in cui il pensiero di lei, la voglia di averla, erano così forti da essere… l’unica-cosa-possibile. Se tutto era così piacevole non poteva esserci niente di sbagliato.
Si alzò e andò alle sue spalle, le posò le mani sui fianchi, lei piegò il collo di lato e lui la baciò lì, in quella sorta di acquasantiera minuscola, che si forma tra il collo e la spalla. L’odore di lei si fece più intenso e lui ne fu risucchiato.
Lana si voltò e si baciarono, labbra su labbra, lingua su lingua, denti a mordere le labbra, fu un abbraccio che sembrò fonderli assieme.
LANA
SI PARTE
Sto per partire e la valigia è ancora tutta disfatta. Ci ho infilato di tutto e ritirato tutto fuori. Eppure devo star via solo quattro giorni, e lo sapevo da tanto.
Beh, forse ora non mi va più di partire. Tutto qui!
«Allora hai finito con quella valigia?» fa Marco con la sua solita ansia.
«Quasi.»
«Ma sta ancora tutto fuori?! Dai che stanno arrivando…»
«Ascolta non mi stressare, stiamo andando in vacanza o sbaglio?» gli dico sperando che stia zitto e invece…
«Se ti muovi si va in vacanza, se no ci lasciano qui.»
Che cazzone che è, a volte lo odio.
Chissà adesso cosa starà facendo Matteo, lo devo salutare. Non posso e non voglio farne a meno.
«Allora a che stai?»
«Ho finito, ho finito.»
«Le chiavi le hai prese?»
«Sì.»
«Dai che sono qua sotto.»
Apriamo la porta e prendiamo il vialetto.
«Ciao ragazzi» dico a Cristina e Fabrizio i nostri compagni di vacanza in montagna.
«Ciao belli» fa Marco.
Loro fan cenno con la mano e Fabrizio mette in moto la macchina.
«Oh cazzo!» dico io battendomi una mano sulla fronte.
«Che c’è adesso?» Marco, leggermente più avanti di me con la sua cazzo di borsa, mi lancia un’occhiataccia.
«Ho scordato l’asciugacapelli» e già corro verso la porta.
«Salite in macchina che arrivo.»
Lui va verso l’auto scuotendo il capo e io a sferragliare con la serratura.
Entro dentro, mollo la borsa e chiudo la porta. Corro, volo, verso la porta finestra, la apro e poi in giardino e alla porta di lui.
È aperta (è sempre aperta come ad aspettarmi) entro e salgo le scale, senza dir niente, correndo.
Matteo è lì, col suo accappatoio bianco, appena uscito dalla doccia. Mi ci butto addosso e lo stringo forte. E lui stringe me, alto e paziente. Tuffa il naso nei miei capelli arruffati, devo essere orrenda con la corsa che ho fatto. Respira forte i miei capelli, lo sento e sorrido. Respiro anch’io dal suo petto con gli occhi chiusi, e chissà perché, è come essere in riva al mare, coi cavalloni schiumosi.
Poi ci stacchiamo, piano, sorridiamo e io vado via. Così, senza dir nulla, col cuore che mi batte forte.
In casa passo dal bagno, dove ho fatto apposta a dimenticare l’asciugacapelli, lo infilo nella borsa, apro la porta e sono fuori.
«Dai lumaca» mi fa Marco dal finestrino.
Sorrido, abbasso lo sguardo e mi tiro la borsa, il mio sorriso e i miei brividi in questi quattro giorni di vacanza.
MATTEO ANNI PRIMA
QUASI SERA
Sull’ascensore la mia amica Gaia mi disse: «Ciao e forza Italia».
Giocava la nazionale, non fosse stato così sarei rimasto volentieri con lei e le sue coinquiline, a bere the freddo e fumare cannoni d’erba, erano appena tornate dalla Svizzera.
Scesi leggero col sorriso stampato sul volto e nel cuore.
Piazzetta Azzarita era un fascio illuminato dal sole, popolata da uomini quieti e donne che si nutrivano di quel tepore. Alcune giocavano coi bimbi, altre coi propri compagni, che non c’è poi tanta differenza, altre con un libro tra le mani fuggivano la solitudine e si lasciavano portare lontano.
Una donna con gli addominali scolpiti sul ventre piatto mi venne incontro sul selciato, era bionda, con una gonna che sembrava tagliata a metà e un top bianco. Dimostrava trent’anni, anche se forse ne aveva quaranta, camminava dritta e fiera, consapevole degli sguardi che il suo corpo attirava. La guardai, com’era giusto, per un attimo negli occhi, sentii quasi il suo amor proprio aumentare… ed ero già oltre.
Salii sullo scooter e andai incontro alla via, senza correre.
Auto di tutti i colori e decine di motorini verso casa ma senza fretta.
L’ora migliore, le sette di sera di un sabato sera. Il tempo scivolava pigro ma ordinato, la sera che arrivava, la partita da guardare assieme agli amici e quello che dopo avremmo avuto voglia di fare.
Arrivai a Porta San Vitale, misi la freccia e tagliai per il centro. La strada con le pareti vestite di pietra rossa mi accolse, mentre un viandante scattava una foto e io superavo una ragazza in bici. Il tramonto, dolce, abbracciava ogni cosa.
Piazza Aldrovandi, mi fermai al semaforo rosso, a pensarci bene già le macchine ci dicono cosa fare.
Attraversavano lenti i pedoni su strisce dipinte verso i loro destini. Una donna con un cappello bianco, i capelli rossi, un vestito nero, un tizio distratto che incespicò un po’ e poi… pronti a ripartire, quando il semaforo vuole.
Mi fermai di nuovo con le Torri a sinistra e la Feltrinelli a destra, donne di cui subito avrei scordato il viso, il passo, l’andatura, il colore del loro vestito, mi passavano accanto e davanti. Per un attimo tutte, tutto ciò che mi circondava mi appartenne e respirai l’aria fresca e il tepore dell’ultimo sole.
Quando ripartii avevo un autobus davanti, giallo e grosso, di rossi oramai non ne vedevi poi tanti. Meglio passare e lasciarlo alle spalle, con qualche cosa di meglio davanti.
La strada era piena di persone che attraversavano, bastava lasciare un po’ l’acceleratore per farle passare, o dare un po’ di gas per farle fermare un attimo, e passare prima di loro… Un signore vestito di grigio, berretto nero, barba e un ombrello inutile appeso al braccio… una signora grassa dai capelli scompigliati e un vestito a fiori… una ragazzina che trascinava un’amica tenendola per mano… Sembrava che tutti avessero un posto dove andare, un motivo per pestare l’asfalto, qualcuno da qualche parte ad aspettarli. Sembrava che nessuno avesse lo smarrimento che a volte si sente, la solitudine, la paura.
Sarà stata la sera o il fatto che era un sabato sera, sarà stata l’estate vicina, la ganja che avevo fumato… Saranno stati i vent’anni leggeri che mi portavo addosso, il sapere di non esser solo, le mille strade che ancora avevo davanti, ma il mondo era un bel posto, e mi sembrava che tutti, fossero d’accordo con me.
PARTY
Siamo arrivati dopo una strada che sembrava infinita. Ci siamo persi due volte. Alla fine abbiamo trovato tre macchine in colonna e le abbiamo seguite. Perse qui su in montagna, non posso essere dirette verso nessun altro posto.
Siamo io Simone e Sandrino. Siamo vestiti di scuro, carichi e pronti. Per fortuna non abbiamo preso niente prima di partire, ora saremmo già in orbita a mordere i sedili della macchina o a digrignare i denti.
È pieno di auto, il posto è sul cocuzzolo di un colle ficcato in mezzo a una notte nera e di nessuno.
Parcheggiamo e scendiamo. La festa è nel seminterrato di una casa enorme, non riesco a vederla tutta, con ‘sto buio, ma sembra essere un castello o giù di lì. Scendiamo i gradini ed entriamo.
Gente fitta e stretta, musica da tutte le parti, che sfonda le orecchie, riempie lo stomaco e rimbalza sui muri vecchi e spessi. È un ambiente grande ma basso, diviso da grosse colonne, e volte a stella. Che razza di posto per fare una festa, ma ogni posto può essere quello giusto.
Andiamo dritti al bar, facendoci largo, Sandrino in testa, è il più grosso e il più assetato.
«Dammi tre birre» fa al tizio dietro al bancone, poi rivolto a noi: «Birra vero?».
«Birra» fa Simone, io mi limito ad annuire.
Coi primi sorsi di birra mandiamo giù mezza pasticca a testa, giusto per cominciare.
Ci guardiamo attorno, il sound è in fondo, quasi non si vede dalla gente che è lì ammassata a ballare. Tekno cazzo. Un po’ di sana musica Tekno.
C’è un ragazzo con un bambino sulle spalle, sicuramente è suo figlio, balla il padre tra la gente e il bimbo fa saltare i berretti dalle teste dei ragazzi vicini.
Guardo e sorrido, Simone sta facendo la stessa cosa.
«Che paste sono?» chiede Sandrino.
«Cilindretti verdi» risponde Simo. Li tira fuori dalla mutanda delle sigarette che ha messo nel pacchetto. Sono verdi chiari, piccoli, alti e maculati di puntini scuri.
«Sono buoni,» dice «ora vedi».
«Vediamo…» alzando le spalle Sandrino. «Facciamo un giro».
E partiamo, insieme, in mezzo alla gente.
Ragazze mezze nude, con le gonne quasi inesistenti, la pancia scoperta, bionde coi dread o more coi capelli corti e sparati, o con cappelli e cappucci calati sulla testa. Uomini a torso nudo, sudati, ondeggianti, rasati, coi capelli corti, o acconciature eccentriche, con la musica che li scuote. Cani da soli o coi loro padroni, la maggior parte sono pitbull, alcuni si azzuffano, qualcuno fa la guardia al padrone già steso a dormire o qualcosa del genere.
La mezza pasta comincia a salire, ci siamo avvicinati al sound, la musica mi entra nel corpo dalle orecchie e mi accarezza l’anima.
Simone mi guarda e sorride, comincia a salire anche a lui, Sandrino neanche a dirlo è curvo a ballare con le labbra strette e le mani che si aprono e chiudono. Pesa un quintale e mezzo ma quando balla sembra leggero come una pallina saltellante.
Balliamo per un po’ tra la gente poi Simone dice: «Facciamo una canna?».
Io faccio sì con la testa, quando Sandrino ci vede partire smette di ballare e ci segue, ha cominciato a smascellare, muove la mascella da destra a sinistra come se masticasse una gomma che non finisce mai. A me non succede, per lo più serro i denti come due morse.
«Buone le paste vero?» chiede Simo.
«Cazzo se sono buone,» gli fa Sandro «ho cominciato a smascellare vero?».
Simo ride, e Sandrino: «Dai fai questa cazzo di canna che mi sta salendo tutto».
Io mi guardo intorno, tutto sembra più luminoso, lo sguardo comincia ad abituarsi alla poca luce e forse è anche l’effetto della droga che dilata le pupille.
«Ti stai divertendo?» mi chiede Simone.
«La festa è proprio bella.»
«Vuoi l’altra mezza pasta?»
«Voglio fumare prima» gli faccio, e lui mi passa la canna appena rollata.
Do una boccata per accendere, senza respirare, guardo la bocca dello spinello che brucia e ci soffio sopra, poi aspiro, lentamente. Il fumo
dell’afgano che brucia mi scende lento a riempire i polmoni, è saporito, espiro lento dal naso.
«Buono.»
Simone mi guarda e annuisce poi si gira a Sandrino: «Vado a prendere un’altra birra così ci mangiamo l’altra mezza».
«Fammi fumare» fa Sandrino a me e Simo parte verso il bar.
Quando torna, Sandro gli passa la canna e lui da a me la birra, la lattina è ghiacciata, la apro e do un sorso.
«Non la finire che ci dobbiamo calare» fa Simo, poi passa la canna a me e sfila le pasticche dal pacchetto di sigarette. Ci vogliono giusto tre secondi e abbiamo mandato giù le altre metà.
È incredibile quanto sia facile mandar giù una pillola.
Quando la canna sta per finire Simone parte e noi con lui. Si balla.
Sento il cervello leggero, nessun pensiero, è come se la musica fosse liquida e mi entrasse dentro a lavare, sciacquare ogni cosa.
Sento i toni alti che si fanno largo tra i bassi, salirmi come bollicine effervescenti lungo la schiena e poi scoppiettarmi dalla testa alla punta dei capelli.
Va tutto da sé, anche se a me sembra il contrario, sento di essere capace di incanalare i miei pensieri, le mie energie solo verso la musica, solo ballare, vibrare. Non voglio essere in nessun altro posto, con nessun altro, tutto è perfetto.
Mi guardo attorno, di tanto in tanto, cercando qualcosa che mi dia ancora più slancio. Sono un insaziabile divoratore di emozioni.
Poi lei arriva e si piazza proprio davanti a me. È una ragazza alta, sinuosa e vestita di giallo, vedo la sua pelle lucida di sudore e abbronzata tra gli indumenti che le fasciano il corpo. È rossa, riccia, con un culo da paura. Non c’è niente di meglio da guardare, sento l’empatia che si fa largo, l’ecstasy ti dà questo. Ti senti in sintonia con ciò che ti circonda, che ti è vicino, se questo è una figa da paura è come se la stessi scopando mentre balli, il suo ritmo è il tuo. Senti le sue emozioni, è come fondersi assieme.
Ma la festa finisce ogni volta…
Quando uscimmo era come se avessi l’ovatta nelle orecchie, il sole era sorto su una mattina che non ci apparteneva. Entrammo in macchina senza dire una parola, gli sportelli si chiusero e partimmo, lo stereo spento, lo sguardo annebbiato. Mi sembrò un viaggio diritto, come se la strada fosse senza incroci e senza curve, una lunga discesa verso casa, nella luce più accesa che avessi mai visto, e dire che avevo gli occhiali da sole. Quando prendemmo via Massarenti dove abitava Simone gli dissi.
«Cazzo mi è sembrata tutta dritta la strada.»
E Simo a me: «Perché non lo è stata?».
Imboccammo il cortile interno del condominio e vedemmo un’auto dei carabinieri parcheggiata sotto casa, era troppo tardi per tornare indietro, per fortuna avevamo buttato in corpo tutto ciò che di illegale avevamo.
Scendemmo senza dire nulla, un maresciallo con una fiamma dorata sul berretto chiese: «Simone Padini chi è?».
«Sono io» disse lui suo malgrado, io e Sandrino prendemmo le scale di casa sollevati perché noi non c’entravamo e sapendo che il nostro aiuto a Simo era per lo più nella nostra assenza.
Quando anche lui ci raggiunse in casa era abbastanza tranquillo, lo guardammo e ci disse che era per una denuncia del cazzo per occupazione di suolo pubblico abusiva. Avevano segnalato la sua auto durante una festa dalle parti di Modena, tutto lì per fortuna. Doveva presentarsi nel pomeriggio in caserma per “scambiare quattro chiacchiere”. Ci andò in tutta tranquillità dopo tre giorni.
Continua…
( parte 1) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-1/
(parte 2) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-parte-2/
(parte 3) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-3/
(parte 4) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-4-2/
(parte 12) https://www.colorivivacimagazine.com/?s=amore+chimico
foto immagine di copertina Maud Chalard
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