Amore chimico di Davide Venticinque (parte 7 e link alle altre)
Quarta di copertina
«Ho rimorchiato una tipa» le disse, era per la coca, non si vantava di solito. Ma Rossana lo sapeva e lo capiva, era quello il bello. Con certe persone sai di non essere mai sbagliato.
L’amore ai tempi della droga è un modo per toccarsi senza essere realmente vicini. Amore chimico è la storia di giovani in cerca di risposte e identità, in precario equilibrio sul filo della vita.
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( parte 1) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-1/
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(parte 3) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-3/
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TEMPO PRIMA
ELETTRO
Matteo si svegliò presto, aveva delle bollette da pagare e l’elenco degli esami da prendere in facoltà.
La sera prima aveva sentito Elettro, si dovevano vedere per pranzo. Era un suo compagno di facoltà, il primo che aveva conosciuto nel primo giorno di corso.
Matteo quel giorno di settembre di quattro anni fa era coi suoi due libri, che avevano ancora quell’ odore come di cera gommata, un blocco per gli appunti, un pennone nero nel taschino, gli occhi ancora stretti dal sonno. Macroeconomia era un esame importante e il prof era una specie di leggenda, come solo i professori eccentrici e appassionati sanno essere.
Si guardava attorno Matteo, c’era un sacco di gente.
Elettro tra tutti era quello che spiccava di più. Aveva un cespuglio di capelli biondi, un paio di occhiali da sole da snowboard, una camicia larga ben stirata, con due taschini neri e arancio, il colletto sbottonato a far vedere una grossa collana di biglie d’acciaio. Pantaloni corti, appena sotto il ginocchio, larghi e comodi, come lui.
Già, comodo gli era sembrato Elettro la prima volta che l’aveva visto. Se ne stava immobile, le gambe leggermente divaricate, perfettamente a suo agio nonostante in mezzo alle camicie classiche e ai pantaloni con piega dei suoi compagni di corso era come una mosca bianca.
Proprio mentre Matteo lo guardava dalle fessure che aveva al posto degli occhi, quello gli si era fatto incontro, camminando con la pancia in fuori e grattandosi sotto un’ascella.
«Piacere Elettro» gli aveva detto porgendogli la mano libera, in un marcato e fiero accento palermitano.
«Io sono Matteo piacere. Scusa come hai detto che ti chiami?»
«Elettro, come l’elettrochoc» aveva risposto lui.
«Avevo capito bene, è un nome facile da ricordare.»
«I miei sono un po’ particolari» aveva continuato Elettro. «Mia sorella si chiama Rame» lo disse come se le ‘erre’ fossero tre.
«E com’è?»
«Chi mia sorella?»
«No, com’è che vi hanno chiamato così.»
«Secondo me si sono fatti troppi acidi negli anni settanta. I miei sono davvero fuori.»
«Lo sono anche i miei se è per questo.»
«Che fai a pranzo?» gli aveva chiesto Elettro.
«Mangio, penso» aveva sorriso Matteo.
«Minchia grazie… Lo so che mangi!… Pure io mangio! Vuoi venire a pranzo a casa mia? Abito qui vicino.»
«Grazie» aveva detto Matteo. «Volentieri».
«Senti, però mi devi fare una cortesia.»
«Cioè?» aveva chiesto Matteo incuriosito.
«Non devi dirmi grazie, non te la prendere ma con le persone che frequento mi piace non ringraziarmi.»
«Va bene cercherò di ricordarlo.»
Ora mentre andava al TopoMoto Caffé a fare colazione non poteva che sorridere a quel ricordo, uno degli amici più cari che aveva gli era semplicemente cascato addosso, non aveva dovuto far nulla per meritarlo, non all’inizio almeno, poi c’era voluto il cuore.
Si dà sempre qualcosa per un amico: cuore, pazienza, una donna, tempo, denaro, paura…si rimane sempre in debito, comunque, l’unico debito che è piacevole avere.
Entrò nell’internet caffè, Bernardo era dietro il bancone col suo berretto di traverso e un sorriso stampato in faccia, una maglia nera con su scritto:
«Oggi non mi rompete il Kazzo!».
«Buon giorno. Ti rompo il cazzo se ti chiedo un caffè?»
«Madonna mia!» aveva detto Bernardo in napoletano. «Tu proprio mo lo vuoi un caffè?»
«Che c’è, è un orario controindicato?»
«No, è che il caffè agita, tutto qui, quello ti agita a qualsiasi ora lo prendi. Senti Matteo ma vai di fretta? O ci possiamo fumare una sigaretta prima?»
«E fumiamoci ‘sta sigaretta.»
Bernardo aveva fatto il giro del bancone posando una mano sulla spalla di Matteo, erano usciti fuori, si respirava l’aria fresca di ottobre e la gente che passava sapeva tutta dove andare.
«Che hai fatto ieri sera?» chiese Bernardo.
«Sono stato a cena da Arturo, c’erano anche Fabietto e Samuele. Tu che fine hai fatto?»
«Io ho chiuso tardi, c’è stata gente, tutti a bere ‘sti ragazzi di oggi, non ti dico. Ho beccato Rino, siamo andati a mangiarci ‘na cosa qua dietro.»
«Come sta Rino? Non lo vedo da un po’.»
«Bene, e come deve stare! Quello sta sempre qui dietro a studiare, passa tutti i pomeriggi.»
«Dopo pranzo ritorno magari lo incrocio che mi fa piacere.»
«Vieni dai, che ti preparo ‘sto caffè.»
Bernardo entrò dentro, Matteo buttò la cicca della sigaretta e vide che arrivava Melissa, piccola e stretta, vestita di nero col suo pincher al fianco come al solito.
«Oh bella!» disse abbracciandola.
«Ciao Matte» fece lei con la sua voce sottile quasi da bimba. «Lupo tu aspettami fuori capito?» disse al minuscolo cane.
Entrarono dentro.
«Madonna mia!… Non mi dire che vuoi un caffè anche tu Melissa?»
«No, sono passata solo a salutarti! Dai fammi un caffè, te lo hanno mai detto che fai il barista?»
Melissa veniva dalla Calabria Saudita come diceva lei, e anche il suo accento era inconfondibile.
«Senti» le fece Bernardo «e tu hai letto quello che sta scritto sulla maglietta?»
«Che c’è scritto? Fammi vedere che non ho messo gli occhiali.»
Melissa si avvicinò strizzando gli occhi.
«Stupido! Ma che cosa ti metti addosso?… e poi a lavoro!» disse sembrando scandalizzata.
«Mai lavorato in vita mia» disse Bernardo serio, per quanto lui poteva essere.
Un’ora dopo Matteo stava uscendo dalle Poste Centrali, prima di entrare aveva guardato l’orario altrimenti avrebbe perso ogni cognizione temporale.
Le Poste sono così, un posto dove il tempo si perde dietro le file, l’attesa che venga chiamato il tuo numero, dietro il vecchietto che ci mette una vita a farsi pagare la pensione o a fare una raccomandata. Ci entri che magari hai fretta, che hai corso per sbrigare mille faccende, poi ti fermi, immobile, ad aspettare, a guardare lo sclero di qualcuno o se sei stato previdente a leggere un libro o il giornale. Allora capisci di aver corso senza ragione.
Uscire fuori fu rituffarsi nel fluire della città, nei passanti col telefonino e con la borsa di cuoio, nelle auto che suonavano, nel via vai fuori dai negozi. Prese di nuovo via Zamboni e poco dopo entrò nella Facoltà di Economia stando attento a non attraversare la piazza antistante. Passò invece sul marciapiede laterale, come ogni studente scaramantico faceva prima di arrivare alla laurea. Altro rito da rispettare era non salire sulle Torri Degli Asinelli prima di quel giorno. Era affascinante dover aspettare e sudare un po’, prima di vedere Bologna tutta ai tuoi piedi.
Appelli ce ne erano in abbondanza, avevano pensato bene però a sovrapporre un paio di insegnamenti che gli interessavano, così da rendere impossibile fare entrambi gli esami. Che bella cosa sarebbe il dono dell’ubiquità.
Telefonò a Elettro. Chissà cosa cazzo stava combinando.
«Oh, compare mio!» rispose lui.
«Oh, bella Elettro, come stai compare?» disse Matteo.
«Bene bene, ma dove sei?»
«Fuori Economia.»
«Aspettami là che vengo a prenderti. Sono in macchina.»
Passò giusto un minuto, il tempo di accendere una sigaretta.
Elettro arrivò, con una Range Rover verde, vecchia di quindici anni ma ancora bellissima e un po’ a sproposito, in una città così inquinata. Lo stereo era acceso, musica tekno usciva prepotente dagli altoparlanti, Elettro lo guardò dal finestrino, oscillando il capo a ritmo di musica e sorridendo dietro un paio di occhialini neri.
«Monta compare.»
Matteo fece il giro e salì su quella specie di carro armato.
«Ma una macchina più eco compatibile?» chiese Matteo.
«Eh?!» disse Elettro torcendo la bocca.
«Che te lo dico a fare.»
«Ce l’hai con me?» gli fece il verso Elettro sorridendo. «Compare mio come stai? Che mi racconti?» Elettro non riusciva mai a fare una cosa per volta, fosse anche una domanda.
Matteo abbassò di poco il volume dello stereo.
«Tutto a gonfie vele ringraziando il cielo. Tu piuttosto che fai?»
«Le solite cose, lavoro che mi fa strippare e cento miliardi di casini. Ho sentito Sandrino l’altro giorno. Tu da quanto è che non lo vedi?»
«Qualche giorno. Tua sorella sta bene?»
«Bene compare. La settimana prossima viene a trovarmi, tieniti libero che ci becchiamo, le fa piacere.»
«Anche a me compare» gli diede una pacca dietro la schiena e gli strofinò la spalla, Elettro sorrise.
«Passami due tiri di sigaretta.»
Matteo gli passò la sigaretta quasi finita e lui continuò.
«Oh… se senti puzza di piscio a casa, mi devi perdonare, c’è stata quella bbuttana della gatta che mi ha fatto uscire pazzo.»
Elettro aveva tre gatti, due enormi maschi castrati, e una gatta siamese.
«Tornavo a casa e sentivo puzza di piscio» continuò. «E lavavo… lavavo… Minchia tre bocce di candeggina e ‘sta puzza non andava via. Un giorno mi affaccio piano alla porta della mia stanza e vedo quella bbuttana sull’armadio, col culo di fuori, che la faceva terra aria sul muro. Entro in stanza e urlo ‘Minchia bbuttana, allora tu sei!’.
La volevo uccidere ti giuro. La settimana scorsa mi ha pisciato sul mixer.»
«Quello è perché ti vuole bene» disse Matteo.
«Minchia! E se le stavo sul cazzo?»
IL CYBER BAR
Siamo qui da un’ora, c’è una cazzuta festa tekno. Il posto è un labirinto di stanze e corridoi, luci diverse, rosse, blu, musica a palla che sembra provenire dalle pareti stesse. La gente è talmente tanta che ci sbatti addosso e ti ci strusci per passare dove è più fitto, c’è un sacco di figa.
In una stanza danno un cartone porno con cyborg e umani, in un’altra su uno schermo gigante si alternano immagini deliranti che sembrano tirate fuori dalla testa di un matto. Sembra che tutti si divertano.
Ci siamo calati appena entrati, io, Simone, Sandrino e Giufà, il cugino adottivo di Sandro venuto apposta dalla Sicilia, non voleva perdersi la festa. Ha capelli lunghi e biondi, un naso aguzzo, lo sguardo spalancato del cocainomane di gusto, il sorriso a trentadue denti del piacione che ama la figa.
‘Giufà è un modo di essere’ mi ha detto a un certo punto Sandrino, quindi forse non è neanche il suo vero nome.
Ci spostiamo da una stanza all’altra troppo di continuo, la pasticca comincia a salire e mi prende male. All’inizio è solo l’aria che mi manca, penso di uscire fuori, via da quel caos. Una volta uscito sento come un calore alla testa, come se si scaldasse dal di dentro, sempre di più… Sempre di più… Poi è come se il mio cranio si spaccasse, lentamente come fosse crosta terrestre, un crepaccio dalla forma di un fulmine che parte dalla base del collo, e si allarga, per poi stringersi nuovamente quando arriva alla fronte.
Mi volto mentre porto le mani alla testa e Simone è lì, deve aver intuito qualcosa e mi ha seguito, sorride.
«Che cazzo di faccia che hai!»
Dice, mentre io mi piego sulle ginocchia e apro la bocca come una O muta, devo sembrare una di quelle maschere giapponesi del cazzo o L’urlo di Munch.
«Non preoccuparti è la droga,» mi fa «‘ste pasticche non sono tanto buone».
«Che cazzo di merda è?» faccio io.
Ora comincio a sentire come bollicine di bul pack, quelle che si usano per imballare, che scoppiettano sul mio cranio, come schiacciate da un bimbo monello, sempre più forte e più veloce. Più forte e più veloce. Più forte e più veloce…
Mi sembra di impazzire… Non sono mai stato così. Non so cosa mi prende.
«Sono Mitsubishi» fa Simone. «Se son buone son buone davvero, ma queste sono una merda, sta tranquillo che passa, rilassati.»
«Rilassati un cazzo!» faccio io. «Ora mi esplode la testa. Sento che mi si sta aprendo e scoppiettare cazzo!» quasi urlo, sto per avere un attacco di panico se non bastasse già il resto.
«Minchia!» fa Simo non molto turbato. «Vedi che ti passa da solo, come ti è cominciato. Io non mi muovo da qui non preoccuparti. È solo la droga.»
Sono rannicchiato, aggrappato alla rete metallica della recinzione, lui vicino a me.
Compagno di Viaggio, nel bene e nel male.
Quando ti droghi, quando affronti una dimensione che non conosci, è un’ancora di salvezza avere accanto una persona che sa come comportarsi, che sa cosa dirti per non farti uscire completamente fuori. Che non ti faccia andare via, alla deriva, trascinato dal mare nero e burrascoso, al largo, dove non si vede più la terra, ma solo mare grosso, e oscurità.
C’è gente che ho conosciuto che prendeva anche gli acidi in perfetta solitudine, è una cosa che non raccomando a nessuno. Ci sono sostanze che passano per una completa destrutturazione dell’ Io, non sai più chi sei o dove ti trovi, non vedi ciò che hai davanti ma ciò che hai di dentro, non so se mi spiego.
A volte ci sono delle parti di noi così nascoste, che le ignoriamo. Che forse è giusto ignorare. Può essere pericoloso, anche se estremamente affascinante.
A un certo punto mi si avvicina un tizio con una giacca chiara, sembra uno sbirro ma forse è la droga che me lo fa vedere così.
«Serve aiuto?» mi fa lo sbirro. «Sono del pronto soccorso se hai bisogno.»
Cazzo devo essere ridotto proprio male.
«Sto bene» gli dico.
«Siamo qui vicino comunque.»
E si allontana. Simo è sempre lì seduto.
«Sei ridotto come i peggio sfattoni cazzo!» mi dice ridacchiando.
Mi tiro su, e piano il dolore scompare, il crepaccio si chiude, le bollicine smettono di scoppiare. Butto aria fuori dai polmoni stretti, non so da quanto è che non respiro o che lo faccio in maniera sbagliata.
«Va meglio vero?» fa Simo drizzandosi.
«Sì, va meglio».
«Te lo dicevo che passava, tra un po’ avrai voglia di ballare.»
«Andiamo dentro,» dico io «ho sete».
La festa dentro comincia di nuovo.
FOTOGRAFIA
Giardini di San Leonardo, dagli alberi scende polline di pioppi, come fosse neve.
Fa caldo, c’è il sole, e gli alberi del giardino con la loro ombra sono il rifugio di studenti svogliati, che alternano pigre letture a tiri di cylum.
Lana ha chiesto a Matteo di uscire, di fare una passeggiata.
Marco torna a casa quella sera, nell’ultima settimana in sua assenza hanno praticamente vissuto assieme.
Matteo era rientrato da una festa durata due giorni, lei era sola da una notte.
Mentre lui faceva la doccia, per togliersi di dosso il sudore chimico del party, lei era entrata in casa. Si erano abbracciati appena si erano visti.
«Dove sei stato?» aveva chiesto Lana quasi triste, sembrava una bambina.
«A ballare.»
«Tu balli per due giorni?»
«Anche di più.»
«E cos’altro riesci a fare tanto a lungo?» aveva sorriso lei maliziosa.
Allora lui l’aveva baciata, le era sembrato di entrarle nel corpo, tanto era andato giù con la lingua nella sua bocca. Avevano fatto l’amore per ore, per giorni interi, vedendo il cielo diventare rosso e poi viola, fino a che il buio calava su di loro e sui loro gemiti. Avevano dormito assieme, stretti l’uno all’altra, sfiniti, e quando si erano risvegliati avevano fatto di nuovo l’amore.
Avevano mangiato a letto del gelato, una settimana a nutrirsi quasi solo di quello, e dei loro corpi. Poi del gelato alla fragola cascava addosso al suo seno nudo, lui lo raccoglieva con la lingua e tornavano ad amarsi. Sembrava non dover finire mai.
Avevano parlato poco, era come se andassero a letto per la prima volta, ogni volta.
Ora lei sotto i pioppi, sotto quella neve leggera di polline bianco, gli teneva la testa tra le braccia, lui era seduto su una panchina, lei in piedi.
A lei lui faceva tenerezza. Era un animale, privo di ogni regola e pudore tra le lenzuola, eppure così timido e indifeso a volte, quasi fosse un altro. La affascinava e la faceva sentire da dio ogni volta. Era come il primo amore, quello che non torna. Ed era così ogni volta che lo vedeva, che lo toccava.
Marco sarebbe rientrato quella sera stessa, avevano finito di fare i bagordi. Matteo accettava lei così com’era, non doveva essere facile, non era solo sesso per lui, ne era quasi certa. Non si hanno momenti di così intensa malinconia, e abbracci cosi stretti, quando si scopa soltanto. Lui era un animo libero, tutto qui. Non credeva nei rapporti di coppia, come non ci credeva lei, solo che lei ne aveva bisogno, lui no. Da quando lo aveva conosciuto gli aveva visto frequentare tante donne diverse, alcune per mesi altre per notti fugaci. Eppure possedeva la dolcezza di chi è ancora capace di amare, le ricordava lei come era stata tanto tempo fa, e un po’ lo invidiava per quello.
Sarebbe tornata alla sua solita vita, Marco non aveva intenzione di muoversi, almeno a breve, doveva scordarsi gli orgasmi multipli e le urla, che oramai con Marco erano sempre più rare.
Non aveva mai fatto l’amore con nessuno che somigliasse a Matteo, ed era tutto suo, quando lo voleva, brividi e intensità, tutto dall’altra parte del giardino.
Continua…
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photo copertina ph Lukasz Wierzbowski
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