Quelle stanze
E’ un po’ buio, qui.
Maledetto inverno, con le sue giornate che si ritirano come un maglione di lana dopo un passaggio in lavatrice. Magari a voi non preoccupano: avete abbastanza luce artificiale da riuscire a non pensarci, avete persino le lampade a led, oggi, che consumano pochissima elettricità, e potete permettervi di illuminare a giorno gli ambienti. Per le strade, poi, c’è uno sfavillio di insegne colorate, vetrine, ci sono i tre colori dei semafori, forse persino qualche decorazione natalizia che si attarda oltre ogni limite di decenza, a renderle meno tenebrose.
Ma qui dentro non è così: qui dentro nessuno viene mai ad accendere le vecchie lampadine a incandescenza, e anche le tapparelle sono serrate come se per questo posto non ci fosse un domani.
Però durante il giorno qualche lama di luce riesce a farsi strada, penetra dai vetri smerigliati del bagno, che non hanno oscuranti, s’infila attraverso una listarella e l’altra degli avvolgibili, che per fortuna non sono stati tirati giù con tanta violenza da renderli completamente ermetici, come se una mano pietosa avesse voluto lasciarci comunque uno spiraglio.
Io, poi, il buio lo soffro in maniera particolare.
Sono una vecchia macchina fotografica, una Voigtlander 50 mm con messa a fuoco manuale da ghiera. Sì, lo so: forse se aveste dovuto immaginare un oggetto animato e pensante, in questa casa abbandonata, vi sarebbe riuscito più facile con quel coniglietto di pezza adagiato sul letto, nell’altra stanza, oppure con uno dei tanti angioletti che ne sovrastano la testiera in atteggiamento protettivo. Fate così, voi umani, tendete a dare sembianze simili alle vostre a qualsiasi forma di vita, anche irreale o impalpabile, che sia un alieno o – persino – il vostro Dio, che dovrebbe essere quanto di più immateriale esista. E, di consegueza, vi sembra possibile che qualsiasi oggetto che abbia le vostre fattezze possa detenere un pizzico di anima.
Invece non è così, invece noi oggetti l’anima non ce l’abbiamo, e se ce ne viene instillata una goccia non è per merito del nostro aspetto esteriore, bensì per l’intensità dell’amore o del desiderio che qualcuno di voi ci ha riversato addosso.
Sì, io sono stata molto amata, a cavallo fra gli anni ‘60 e ‘70 e, modestia a parte, alcuni dei più dolci quadretti di famiglia che sono appesi a questi muri sono opera mia, ma non è stato questo ad animarmi. A rendermi capace di vedere questo buio così triste e denso è stato il desiderio che aveva il vecchio di regalarmi al primo nipote che la vita gli avesse concesso. Sperava che un oggetto così orgogliosamente antico potesse far scoccare in lui o in lei la scintilla della sua stessa passione per l’arte dell’immagine.
Non aveva confidato a nessuno quel progetto che aveva per me, l’aveva accarezzato a lungo dentro di sé come un piccolo gioiello, un segreto fra lui e me.
Non ha fatto in tempo.
Una brutta malattia, di quelle che non si nominano mai, l’ha portato via da qui prima che diventasse nonno.
Ed io sono rimasta su questo tavolo, a catturare quel poco di luce che posso attraverso il diaframma e farlo sbattere contro l’otturatore sempre abbassato, nell’attesa vana che un ditino venga a schiacciare quel pulsante.
Presto o tardi questa casa verrà ristrutturata.
Prima o poi finirò sul fondo di uno scatolone.
Ma ho sperimentato l’amore e la speranza, mi hanno invaso e pervaso, e per un vecchio oggetto non è poi tanto poco.
Testo e fotografia di Manlio Ranieri
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