Amore chimico di Davide Venticinque (parte 10 e link alle altre)
Quarta di copertina
«Ho rimorchiato una tipa» le disse, era per la coca, non si vantava di solito. Ma Rossana lo sapeva e lo capiva, era quello il bello. Con certe persone sai di non essere mai sbagliato.
L’amore ai tempi della droga è un modo per toccarsi senza essere realmente vicini. Amore chimico è la storia di giovani in cerca di risposte e identità, in precario equilibrio sul filo della vita.
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segue da parte 9
CIELO COLOR PIOMBO
Matteo si svegliò con un cerchio alla testa, il corpo pesante, una nausea sottile e un senso di smarrimento. Il cielo fuori aveva il colore del piombo.
A fatica si sollevò dal letto e già il suo cervello pensò a Lana, a dove poteva essere. Erano le nove del mattino.
Si affacciò alla finestra, si stava sollevando un vento caldo che odorava di tempesta, già le foglie facevano mulinelli in terra e gli uccelli volavano bassi quasi aspettando la pioggia.
Prese il telefono e chiamò in ufficio, Bea rispose subito.
«Presto Casa Immobiliare in cosa posso esserle utile?»
«Bea sono Matteo.»
«Dimmi tutto capo.»
Lo chiamava così da quando lui le aveva chiesto di non chiamarlo dottore, in realtà capo era anche peggio. Bea si divertiva così.
«Mi scoppia la testa, stamattina non vengo in ufficio, vedi se riesci a spostarmi gli appuntamenti a domani e avverti Stefano.»
«Agli ordini. Bevuto troppo ieri sera?»
«Troppo poco forse».
«Riguardati, un bacio.»
«Grazie. Un bacio.»
Mise giù e andò in bagno, in boxer, passò di fronte allo specchio, non era per niente in forma. Ripensò per un attimo alla scenata che aveva fatto la sera prima a Lana. Poi cacciò via il pensiero. Se non ci pensava era come se non fosse accaduto.
Si sedette sulla tazza per quella che gli sembrò un’ora, fumò due sigarette nel silenzio più assoluto, coi gomiti poggiati sulle ginocchia ossute, passandosi le mani sul capo di tanto in tanto.
Fece una doccia, si vestì e uscì fuori, quella cazzo di casa quando lei non c’era gli sembrava una morsa che stringeva piano e inesorabile la sua testa.
La sua sicurezza era andata via, non era altro che plastica in fondo, e ora non lasciava che il puzzo di quando la plastica brucia.
Fuori sembrava che il tempo si fosse fermato, non girava nessuno per strada, quasi fosse l’ultimo uomo sulla terra. Doveva vedere qualcuno, montò in macchina e accese il motore.
Fece la poca strada che lo separava dal paese, contento di essersi sbagliato, di vedere che qualcun altro popolava quella giornata grigia. In piazza c’erano un paio di tizi davanti al bar e uno che usciva dall’edicola. Matteo entrò dentro e prese i giornali.
Le solite notizie in prima pagina, guerre, problemi economici, questo politico che diceva l’esatto opposto di quell’ altro.
Come faceva la gente a non capire, che uno dei due, come minimo uno dei due, mentiva?
Salì in macchina e andò verso il giardinetto pubblico, forse vi avrebbe incontrato qualcuno che conosceva.
A ridosso del giardino, separato da una stradina sterrata, c’era uno spazio recintato da una rete di metallo verde, col terreno leggermente in salita, quattro alberi e due panchine, era lo spazio per portare a spasso i cani senza dare disturbo.
Reti e muri separavano ormai quasi tutto.
Matteo aprì il chiavistello, fece rotare il cancello sui suoi cardini cigolanti ed entrò nel recinto. Gigi e Romeo erano lì seduti.
Gigi l’uomo, sulla panchina, con un cannone di fumo in bocca, i capelli grigi e lunghi sfilacciati dal vento.
Romeo il cane, uno spinone nano, in terra, con un bastone in bocca, malandato dal cimurro quando era cucciolo era rimasto gracile, quasi faceva fatica a restare seduto e non volare via portato dal vento.
Gigi accolse Matteo ridacchiando e tossendo, non riusciva da tempo a ridere e basta.
«Ma guarda te guarda! Ma fuma il cannone anche lui come il suo padrone!»
Disse indicando Romeo che era il suo orgoglio e il suo unico compagno.
«Ciao bello» disse Matteo a Gigi, poi strofinò la testa a Romeo che non se la sognò neanche di mollare il bastone che doveva pesare poco meno di lui.
Si sedette sulla panchina affianco a Gigi e lui come prima cosa gli passò la canna.
«Si è visto Sebastian?» chiese Matteo.
«No, perché hai bisogno di fumo?»
«Anche. Chiedevo per chiedere comunque.»
«Se sei a secco qualcosa a casa ce l’ho. Ti piace? È marocchino, niente di straordinario ma niente male vero?»
«Buono» disse Matteo, guardando la brace dello spinello mentre ci soffiava sopra.
«Ah guarda, io preferisco questo, anche perché lo pago poco, e poi con quello che fumo! Non posso mica mandare tutta la pensione in fumo! E poi cosa gli do da mangiare al mostriciattolo?» disse accarezzando Romeo.
Gigi non arrivava ai cinquanta ma prendeva la pensione da quando lo avevano trovato siero positivo. Era stato un medico del pronto soccorso, poi medico di famiglia, ora si massacrava dalle canne per stimolare l’appetito e non sentire troppo i dolori e gli effetti dei farmaci che prendeva.
Aveva vissuto gli anni settanta da studente universitario, era stato nei collettivi, avevano anche provato a mettere su una comune, poi gli sbirri avevano sfasciato tutto una notte e arrestato un sacco di persone per possesso di lsd. La comune era finita lì.
Sebastian era un altro habitué del giardinetto dei cani, aveva un incrocio tra un labrador e un pastore belga, il risultato era Taco, uno splendido esemplare grosso e scuro, con un carattere dolcissimo ma dalla natura dominante, seguiva Sebastian ovunque, pure a lavoro, nei vecchi cinema che lui ripuliva. Anche Sebastian era uno degli anni settanta, ora scopava con ragazze più giovani e viveva alla giornata, sereno come un pomeriggio d’estate.
Il cancello d’ingresso cigolò di nuovo ed entrò Veronica.
Era bella e castana, alta un metro e sessanta sembrava superare l’uno e ottanta tanto era leggera quando si muoveva, la pelle chiara, gli occhi verdi, un sorriso sotto due zigomi alti e provocanti.
Schila era al suo fianco, ma non appena vide Romeo gli corse incontro, Romeo mollò il bastone e cominciò a giocare con lo schnauzer di Veronica.
«Bravo Romeo! Proprio come il tuo padrone, van’ bene le canne ma la figa è un’ altra cosa.» Disse Gigi orgoglioso.
«Ciao ragazzi» salutò Veronica baciandoli, prima Gigi poi Matteo. «Come state?»
«Io bene, Matte non so mica! Non ha detto quasi nulla da che è arrivato!»
«Che se tu mi fai fumare alle dieci del mattino.»
«Se!… Io ti faccio fumare alle dieci». Fece Gigi come a scacciare quella sciocchezza con la mano.
«Quanto fumo c’era in quella canna?»
«Che so. Un grammo… le tue non mi sembrano più leggere…»
«C’hai ragione anche te» disse Matteo.
«Beh perché non fate una porra che mi avete fatto venir voglia?» sbuffò Veronica mettendosi a sedere.
«Faccio io» e Matteo si mise a lavoro.
«Si fai te. Se c’ha voglia io son’ troppo vecchio e malandato» disse Gigi.
«Ma ancora bello stronzo» lo apostrofò Veronica sorridendo.
Mentre Veronica e Gigi chiacchieravano lui veniva rapito a tratti dal pensiero di Lana, era un tormento, un pensiero che non voleva avere ma finiva comunque per entrargli nelle pieghe del cervello. A pranzo avrebbe chiamato Simone. Non voleva restare solo coi suoi fantasmi. Soprattutto doveva cancellare quello che era successo la sera prima. Non era successo nulla la sera prima.
Gigi parlava del suo vecchio lavoro, lo faceva spesso, aveva odiato fare il medico eppure non aveva potuto farne a meno.
«I medici sono medici» amava dire. «Punto e basta.»
Più di ogni cosa aveva odiato i suoi pazienti quando era medico di famiglia. Al pronto Soccorso poteva pur passare, arrivavano persone colte di sorpresa, mentre erano in auto, ovunque. Nel suo studio facevano la fila invece vecchi stanchi senza nessun malanno, senza contare la vecchiaia, quella è una sfortuna ma beato chi ci arriva.
«La vecchiaia è una carogna ma è più carogna chi non ci arriva» disse. «Te li dovevi vedere te ‘sti vecchiacci. Erano già in fila prima che aprissi, quando arrivavo al mattino e poco importava se c’era il gelo ed erano convinti di avere una polmonite. Venivano coi loro fardelli. Alcuni tutti i giorni. Non se ne andavano finché non gli dicevi che avevano qualcosa, non gli prescrivevi qualche farmaco. La gente vecchia preferisce pensare d’essere malata piuttosto che accettare che deve andarsene comunque.»
Veronica diede un tiro alla canna: «Ho visto persone anziane aggrappate alla vita molto più di ragazzi giovani e nel fiore degli anni».
«Quando sei troppo giovane capisci ancora poco per apprezzare la vita» continuò Matteo contento di riuscire ad afferrare la realtà grazie al filo della conversazione.
«Non è sempre così però» continuò Veronica. «Ci sono ragazzi che hanno vissuto così tanto in pochi anni che sembrano quasi dei vecchi a sentirli parlare».
«Se! E magari lo sembrano anche» disse Gigi. «Non puoi comunque capire certe cose, se non pesti questo mondo schifoso fino a che non ti si curva la schiena.»
«Insomma i vecchi sono saggi o ti stanno sul cazzo?» chiese Veronica.
«Entrambe,» disse Gigi «e poi ora li invidio, io non sarò mai vecchio. Morirò prima».
«Tu eri già vecchio a vent’anni» gli disse Matteo guardandolo negli occhi.
Gigi sorrise grato, malinconico, e tossicchiò come al solito. Romeo e Schila giocavano, Veronica chissà cosa pensava mentre guardava le nuvole scure e Matteo, per ora, teneva i demoni al guinzaglio.
DESPERADO
Oggi non ho trovato appigli, niente da fare. La prima cosa che ho sentito appena sveglio è stata una fitta, come un chiodo arrugginito che mi si piantava nel cervello. Sono andato al cesso e ho fumato tre sigarette, con lo sguardo perso nel vuoto, i calzoni calati in terra, i piedi nudi sul pavimento lercio. Non pulisco casa da una vita, non faccio un cazzo. Mi drogo, fumo, cammino per strada per ore, leggo, almeno questo di buono mi è rimasto. È come se cercassi di estraniarmi, di non fissarmi sulle mie paranoie che stanno diventando giganti. Neri e molli elefanti neri, sono ormai i miei pensieri. Anche leggere però mi crea problemi, sono troppo empatico con tutta la roba che prendo. Ormai mi calo ogni tre, quattro giorni, non faccio più in tempo a smaltire, non sono mai lucido. Le storie che leggo in questo stato mi entrano dentro, sino all’animo, mi coinvolgono, mi sento io stesso i personaggi che si avvicendano tra una pagina e l’altra. A volte scoppio a ridere, mi è capitato anche di piangere. Per fortuna ero solo, m’avrebbero preso per pazzo, forse comincio a esserlo.
Ho lasciato il lavoro da due settimane, non aveva più la minima importanza e poi sono impresentabile.
Il tempo vuoto davanti a me mi terrorizza e tuttavia non faccio nulla per riempirlo, lo lascio scorrere su di me, mentre sto immobile a farmi spuntare le rughe sul volto.
Da tempo non scopo con Lana, ora è fuori in vacanza con Marco. Pensare che le ho proposto di partire insieme, di andare in Messico, volevo andarci da una vita.
Mi ha guardato strano.
«Vedi che io parto con Marco in ferie» mi ha detto.
«Parti con me» ho insistito io, sforzandomi di sorridere, di sembrare sicuro mentre dentro ero un cumulo di vetri rotti.
«Tu stai fuori.»
Mi ha detto lei spietata.
Quello che cercavo era la disfatta più totale, il punto di non ritorno, ero andato a comperare i biglietti sapendolo, con un nodo in gola.
Tutto o niente, una volta per tutte.
«Scarichi Marco e salti su un aereo con me. Andiamo nella foresta del Chiapas, nei mercati colorati e ordinati, sotto le cascate, scopiamo sulla punta di una piramide Azteca.»
«Tu stai davvero fuori» si è limitata a rispondere lei.
Le ho sorriso, cos’altro c’era da fare…?
Intanto la giornata è lunga e vuota davanti a me, come il corridoio di un ospedale di notte, mi sembra quasi di sentire il puzzo di alcol e la disperazione di cui sono zuppe le pareti.
CORSA IN AUTOBUS
Era in autobus da tre ore oramai. Era sicuro che l’autista lo avesse scrutato almeno due volte dallo specchietto quando l’autobus era semivuoto. Magari stava pensando di chiamare qualche stronzo di controllore o magari gli sbirri, dopotutto aveva una bruttissima faccia. La barba era cresciuta sul suo volto, fitta e nera, il suo sguardo aveva sempre qualcosa di minaccioso. Più di una volta aveva notato che la gente lo osservava come se avesse paura di lui. Aveva perso peso, quasi non mangiava più, nel frigo aveva solo gelato e succo d’arancio, nella credenza dei cracker vecchi di mesi.
Non dava più importanza neanche ai vestiti che metteva addosso, Lana non c’era d’altronde, a cosa sarebbe servito farsi bello lavarsi e profumarsi? Aveva passato gli ultimi mesi a prendersi cura del suo corpo solo in funzione di lei, doveva essere fresco di doccia se lei fosse arrivata all’improvviso, poi lei non l’aveva voluto, ora poteva anche fare schifo, non aveva la minima importanza.
Il suo cervello malandato proprio non ce la faceva a capire. Era tutto capovolto e poi accartocciato, non aveva senso. Non riusciva ad accettare che lei non lo amasse, nessuna donna avrebbe rischiato di mandare alla malora una storia di sei anni per del semplice sesso. Oddio, tanto semplice non era, avevano sfidato ogni legge dell’anatomia e della fisica. Al solo pensiero il suo cazzo si fece duro, a volte lo aveva duro per ore.
Dieci mesi, dieci mesi a scopare come i dannati, a mordersi, a scambiarsi l’anima, a guardarsi negli occhi. Marco non poteva essere importante. Perché allora non lo aveva mollato? Perché tutto quello? Gli sembrava di impazzire.
Lo frustrava il pensiero di non aver alla fine scrutato a fondo nell’animo di lei, c’erano state notti in cui aveva sentito di capirla, come nessun altro essere umano può capire un suo simile. Anche lei glielo aveva detto.
«Scruti troppo nel mio animo, ti adoro a volte per questo ma mi fa star male, io voglio il sole Matteo, i caldi raggi del sole.»
E lui l’aveva riscaldata, era stato sempre lì per lei, avrebbe fatto qualsiasi cosa lei gli avesse chiesto.
C’erano stati giorni in cui li aveva sentiti scopare, di sera, col cielo sereno e l’aria immobile, i versi di lui e i gemiti di lei erano arrivati alla sua finestra aperta, al suo orecchio insonne, il rumore delle loro labbra era assordante, il cigolio del loro letto come le unghie di una strega su una lavagna. Aveva sopportato tutto quello. E aveva aspettato, aspettato nella sua stanza, sdraiato sul letto con una canna in bocca a ingannare l’attesa e a rendere maggiore il tempo prima del suo orgasmo se lei fosse entrata, se avesse deciso di stare con lui.
Solo lo speed gli aveva dato la forza e la follia di andare da lei e vomitarle tutto il suo malessere addosso. Voleva farla finita e ora che era finita nulla aveva più senso.
Tutto era grigio e andava sgretolandosi, le sue certezze la sua forza il suo coraggio, erano state solo un’illusione. Il grigio cedeva il passo al nero che lento lo divorava, come il Nulla divorava l’Universo ne La storia infinita. Sorrise, in fondo gli riusciva ancora.
Poi d’un tratto, oscillando il busto scaraventò la sua testa sul finestrino del bus.
Sentì come un crac.
Poi fu solo buio e silenzio.
CORSA IN AUTOBUS 2
Era seduta in autobus, dopo una lunga giornata di lavoro, aveva quarant’anni, si chiamava Maria, le rughe le cerchiavano gli occhi e i pensieri.
Un soprabito triste, la borsa che le avevano regalato i figli per Natale stretta in grembo.
In fabbrica andava sempre peggio, la storia dei turni proprio non le scendeva giù. Ora era costretta a star fuori casa per dodici ore anche se ne doveva lavorare otto.
Per fortuna nel bus non c’era tanta gente, le dava fastidio la ressa ed il rumore, per otto ore non sentiva che il frastuono delle macchine da cucito, in quel capanno che, per amore della sua famiglia, dalla sua famiglia la teneva lontana. Non vedeva l’ora di rientrare a casa e riabbracciare i suoi bambini. Avrebbe trovato la cena pronta, non riusciva a fare da mangiare
da una settimana, per fortuna c’era sua madre. Non vedeva l’ora di poter preparare qualcosa di buono per la sua famiglia, le lasagne magari e anche un dolce, un budino al cioccolato per i suoi bimbi e una bavarese per lei e sua madre.
Il tizio che le era seduto di fronte, non faceva che dondolare la testa. Aveva il volto pallido e due occhiaie grigie e stanche, la barba lunga, le braccia strette al corpo.
Se ne vedevano di tipi loschi o fatti di droga in giro e sui bus. C’era da tener stretta la borsa e gli occhi ben aperti, soprattutto la notte.
Le sembrava anche che il tipo mormorasse qualcosa, che muovesse appena le labbra, aveva le pupille dilatate e gli occhi spalancati quasi volessero cascargli fuori dalle orbite.
Poi si scaraventò addosso al finestrino, a lei rimase il respiro strozzato in gola.
Batté la testa contro il vetro, forte, tanto che quello andò in frantumi.
Le sembrò di vedere il capo di lui penzolare per un attimo, al rallentatore, oltre il vetro che cascava giù in lastroni, sulla sua testa ricoperta di sangue.
L’autobus frenò di colpo e lei fu scaraventata in avanti, per poco non andò a sbattere contro uno dei sostegni.
Una vecchia aveva cominciato a frignare.
Gesù o Gesù mio Gesù…
Il ragazzo giaceva immobile, con le braccia penzoloni, afflosciato sul sedile con gli occhi chiusi e la testa mezza aperta, a far vedere il cervello grigio, il sangue rosso e qualcosa di nero che Maria non riusciva a capire.
Scorre l’anima mia e i miei ricordi
come luce, raggi di sole
Silenzio Pace
Il soffio del vento che porta le vele
Poi è come un nero risucchio
Un Mostro che afferra le gambe vorace
È bava è Terrore
Non posso più andare.
In trappola nell’antro del Mostro.
Continua…
( parte 1) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-1/
(parte 2) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-parte-2/
(parte 3) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-3/
(parte 4) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-4-2/
(parte 12) https://www.colorivivacimagazine.com/?s=amore+chimico
Immagine di copertina János Eifert – Symbole, 1984
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