Amore chimico di Davide Venticinque (parte 11 e link alle altre)
Quarta di copertina
«Ho rimorchiato una tipa» le disse, era per la coca, non si vantava di solito. Ma Rossana lo sapeva e lo capiva, era quello il bello. Con certe persone sai di non essere mai sbagliato.
L’amore ai tempi della droga è un modo per toccarsi senza essere realmente vicini. Amore chimico è la storia di giovani in cerca di risposte e identità, in precario equilibrio sul filo della vita.
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è possibile riprodurre in parte citando la fonte.
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segue da parte 10
ANGELI ARANCIONI
La sirena dell’ambulanza è assordante e le luci rosso blu tagliano il traffico.
Dentro due tizi vestiti di arancione, uno grasso uno magro, il grasso guida.
«Da quando faccio questo cazzo di lavoro ne ho viste di tutte.»
«Ne hai persi parecchi?»
«Mi è capitato. Uno era un ragazzino. La cosa che ti rimane dentro sono le urla dei parenti quando arrivano sul posto. A volte le sento la notte, mi danno il tormento. Una volta siamo arrivati sul luogo di un incidente stradale, quattro morti, tutti giovani. Era tutto un ammasso di lamiere contorte e c’era un telefonino che continuava a suonare, a vuoto, non faceva che suonare. Mi ha fatto gelare il sangue.»
«Questo dici che ce la farà?»
«Non so, è messo male.»
«Una tipa che era sull’autobus ha detto che ha dato una testata al vetro di proposito. Roba da non crederci.»
«Non c’è più niente in cui non credo. Tra qualche anno capirai perché. Vedrai cosa uscirà fuori quando gli faranno i tossicologici.»
«Perché? Dici che è drogato?»
«Solo uno completamente fatto può fare una cosa del genere, fidati. Se si voleva suicidare si buttava da un ponte o si appendeva al soffitto.»
«Chi c’è di guardia oggi?»
«Busi, ma vedrai che lo rattoppano e lo spostano, non siamo attrezzati per un intervento del genere.»
«In elicottero?»
«No con una carriola. Come diavolo vuoi che lo spostino Santo Iddio?! Cazzo cosa darei per un goccio. Non vedo l’ora di smontare, sbronzarmi e spegnere tutto.»
«Sai, io prima facevo l’idraulico, la notte però uscivo sempre con i ragazzi della Croce Rossa, così mi sono detto che conveniva farlo per lavoro. Il volontariato è bello ma non pagano e mia moglie ne aveva abbastanza che stessi fuori la notte a gratis.»
«Deve essere proprio una rompiballe tua moglie.»
«E tu come fai a saperlo?»
«Sono stato sposato tre volte, non te la prendere, anche io ho avuto la tua stessa faccia, so cosa vuol dire una moglie che rompe i ciglioni. Preferisci star fuori la notte a raccattare gente che rischia di morire pur di non stare con tua moglie.»
«Beh, veramente mi sembra eccessivo. Tu magari avrai avuto brutte esperienze, mia moglie non è così male, questo lavoro lo faccio perché mi piace.»
«Pfa’!» fa il tizio grasso e guarda il magro di lato.
« Bevi almeno?»
«No sono astemio.»
«Non durerai a lungo ragazzo. Comincia a bere e a odiare tua moglie senti a me. Siamo arrivati. Vedi di non fare cazzate pivello questo ragazzo non lo dobbiamo perdere.»
LA NUOVA STANZA DI MATTEO
La stanza dell’ospedale è bianca e celeste, c’è puzza di alcool ma Matteo tutto questo non può saperlo. Ha sempre odiato gli ospedali lui, non ha mai capito come si possa lavorare in posti del genere, non farsi prendere da tutta quella sofferenza e farsi trascinare giù.
Dorme Matteo, o qualcosa di simile. Gli hanno tagliato i capelli, per togliere le schegge di vetro piantate nel suo cranio, quello che ne era rimasto, poi la ricostruzione, lenta e laboriosa della sua testa rotta. Sette ore di sala operatoria, tutte in una volta. Matteo prima di allora non si era rotto neanche un osso.
Ha affianco una macchina che lo fa respirare e gli passa il nutrimento che gli serve.
Non è solo, altri tre letti sono lì dentro, pieni, tutti sono più o meno nelle sue stesse condizioni, tutti attaccati a delle macchine, tutti appena il vago ricordo di un essere umano. Una postazione di infermieri dietro a dei p.c. e ad altre macchine li tiene costantemente sotto controllo. Coma al quarto grado. Questa ora è la prognosi, mentre lui se la dorme, bisognerà aspettare che si svegli, se lo farà, per sapere cosa ne è rimasto di lui, cosa è diventato. Ora lui dorme e il mondo continua a girare.
SIMONE
Sono le otto e mi sto vestendo. Un nuovo lavoro da due settimane. Agente assicurativo. Chissà quanto durerò.
Si è tanto in giro e questo mi piace. Mi muovo in scooter, per le vie della città, il caldo quasi non si sente. Si conosce e si parla con tanta gente, anche questo non è male. Micro rapporti, una stretta di mano e poco meno di mezz’ora per capire chi hai davanti, cosa si aspettano da te, che tipo di persone sono.
Alcune parti del lavoro non mi piacciono, devi scendere a patti, dire e non dire, non si può essere completamente onesti qualsiasi lavoro si scelga di fare.
Suona il telefono mentre sono allo specchio e faccio il nodo alla cravatta.
«Pronto.»
«Simone come stai?»
È Jenny, ha la voce strana.
«Io sto bene tu cos’ hai? Stavo andando a lavoro.»
«Non sai niente?»
«Di cosa?»
«Matteo. Ha avuto un incidente.»
Mi fermo: «Come sta? Che è successo?». Sento come delle dita gelide che mi sfiorano il collo.
«È successo questa notte pensavo lo sapessi. Ha rotto il vetro di un autobus con la testa. È grave Simo.»
Jenny comincia a piangere, io non so come mi sento, per lo più non credo a quello che sento e il tempo si è fermato.
«Cosa cazzo significa che ha rotto il vetro con la testa? Era in moto?»
«No era in autobus. Dicono che l’ha fatto di proposito.»
«Dove cazzo è?»
«A Milano. Lo hanno portato in elicottero stanotte. Noi andiamo, ci raggiungi la?»
«Io vado a lavoro» dico. Non so perché. Non è vero, niente di quello che è successo negli ultimi secondi è vero.
«Simo… È grave, non sanno se ce la farà.»
«Io vado a lavoro» dico. «Ci sentiamo dopo» riaggancio.
Ho delle cose da fare, la borsa da prendere, le chiavi dello scooter e quelle di casa.
Non può essere vero. Farò ciò che devo fare. È uno scherzo o qualcosa di simile ma ora non ho tempo, devo andare a lavorare.
Sono le undici quando squilla di nuovo il telefono.
«Scusate» dico e mi allontano, sono con una coppia di giapponesi, lui vuol fare un’assicurazione sulla vita, hanno gli yen. Li lascio a riflettere coi moduli da firmare davanti.
«Pronto.»
«Simo dove cazzo sei?» è Sandrino, uno dei compagni di brigata.
«Sono a Bologna, in centro.»
«Vedi che sono appena arrivato a Milano. È messo male. È in coma.»
«Finisco con questi clienti e parto.»
«Ci vediamo qui.»
Metto giù. Vado dai giapponesi, sorrido, loro sorridono a me.
È vero, non si può essere pienamente onesti qualunque cosa si faccia.
Salgo in macchina e metto la prima, mi sento freddo, staccato dalle cose che faccio. Ho un luogo dove andare e la strada di fronte. Non sento di avere nessuna emozione. Nessun pensiero, quasi fossero tappati nel mio cervello per non esplodere con la mia testa sul parabrezza.
‘Dicono che l’abbia fatto di proposito’.
Le parole di Jenny d’un tratto mi rimbombano nella testa.
Che cazzo hai fatto amico mio? Che cazzo hai fatto… Tieni duro sto arrivando.
Intanto Matteo continua a dormire o qualcosa del genere.
SANDRINO
Sandrino è un brutto ceffo a vedersi. Alto un metro e novanta ha sempre superato il quintale e venti, sin da quando era al liceo. Ha pochi capelli che porta quasi rasati, pizzo e barba incolti, gilet di pelle sul torso peloso e sul ventre prominente. Le braccia tatuate, calzoni neri e anfibi pesanti. Gli occhi azzurri, tristi, una vena gli si gonfia ritmicamente sulla fronte.
Da un anno fa il macellaio, era senza lavoro, non era l’aspirazione della sua vita anche se a dire il vero gli animali non gli sono mai andati a genio.
La mattina verso le cinque arriva il primo carico, il primo che gli è capitato era di conigli. Erano arrivati così, privi della loro pelle, alieni quasi sembravano, non riusciva a guardarli negli occhi e dire che non era mai stato un tipo tenero.
Comunque il lavoro andava fatto, c’era poco da guardare, doveva tagliarli in quattro, con colpi netti usando un coltello che pesava due chili, rompere le zampe perché si piegassero e stessero nella confezione e togliere la testa. Dimenticavo, gli organi andavano rimossi e appositamente conservati.
Era vestito come un cavaliere medioevale, un guanto di metallo e un bracciale sino al gomito, un’armatura a rete d’acciaio.
Aveva fatto ciò che andava fatto. Sperimentando, provando una cosa nuova. In qualche modo un senso si deve trovare.
Non sapeva quanto altro avrebbe resistito in quel posto, stava cercando altro, poi era successa quella storia a Matteo.
Ora è in piedi, da solo, di fronte alla macchinetta nel corridoio dell’ospedale, gli ha fregato gli spicci e non gli ha dato il caffè.
Tira indietro il suo grosso braccio tatuato, emette un grugnito e dà un pugno alla macchinetta, che barcolla per il colpo, poi quasi per miracolo casca un bicchiere e comincia a sentirsi odore di caffè.
Intanto Matteo continua a dormire o qualcosa del genere.
LANA
Sono nel capanno, lavoro come una forsennata, le ferie sembrano lontane come l’America.
Il lavoro mi aiuta a non scervellarmi sul casino in cui mi sono cacciata.
Sto riverniciando una parete, ho schizzi bianchi ovunque, sento il telefono dopo un po’ che squilla.
Mollo il secchio e corro con il pennello ancora in mano, può essere Marco, mi ha detto che tornava per cena, se non viene lo strozzo.
Mio Dio fai che Matteo nello stato in cui è non mi incasini con Marco.
«Pronto.»
«Pronto la signora Felsini?»
Mi fa una voce estranea, mi sento a disagio, non sono in tanti ad avere il nostro numero.
«Sono un collega di Matteo, aveva lasciato questo recapito insieme al suo.»
«Cosa è successo?» perché lo so, qualcosa è successo.
«Ha avuto un incidente, è ricoverato a Milano, pare sia grave. Non so altro. Mi chiedevo se lei aveva i numeri dei genitori o di qualcuno di famiglia.»
Mi è caduto il pennello, il mio occhio lo nota ma il mio corpo non ha un briciolo di forza, è come se mi fossi vuotata di tutto.
«Non ho niente» rispondo e metto giù. Sento un colpo allo stomaco e poi mi manca l’aria, cado in ginocchio, vorrei ma non riesco a piangere. È un grido che mi muore dentro.
Intanto Matteo continua a dormire o qualcosa del genere.
IN PENOMBRA
Sono seduta di fianco a lui, è quasi irriconoscibile. La stanza è grande, asettica; per entrare mi hanno fatto mettere un camice, una cuffia e delle specie di ciabatte di carta che strisciano silenziose, in questa che sembra un’astronave.
C’è una squadra di infermieri a un monitor, costantemente. Lo hanno rasato e ha tubi che entrano ed escono dappertutto, ha la testa fasciata ed è gonfio e livido.
Chissà che ha provato. Il dolore più acuto, fino quasi a morire.
Non morire amore mio. Non meriti tutto questo, non tu.
Intanto Matteo continua a dormire o qualcosa del genere.
VOCE FUORI CAMPO
Sono passati tutti o quasi, ed è passata anche una settimana ormai. Matteo continua a dormire e l’ospedale ha visto facce di tutti i tipi attorno al suo letto.
Un giorno c’era un gruppo di suore che Matteo aveva conosciuto durante un pellegrinaggio anni prima in Spagna e una rock band con
cui aveva fatto un viaggio in Inghilterra. Roba da non crederci, vestiti tutti di nero, suore e musicisti, coi veli le prime, i capelli lunghi e i tatuaggi gli altri. La stessa espressione sui volti.
Ci sono state tante ragazze, tutte diverse, mi è capitato di pensare a quali tra quelle erano state a letto con Matteo, negli occhi di alcune si vedeva quell’ intimità.
Ho anche conosciuto i suoi genitori, hanno la fede dalla loro parte, questo sapere che qualcuno comunque farà la cosa giusta.
C’è stato tanto silenzio, di quello che cala d’un tratto, come la nebbia, mentre un attimo prima qualcuno sussurrava qualcosa al suo orecchio e gli toccava una spalla.
Molta gente veniva da fuori Milano, è stata un’occasione per conoscerci, gli amici di Matteo, tutti diversi, tutti legati da qualcosa. Dicono che ce la farà, ne sono sicuri parenti e amici, i medici invece sono prudenti.
«Bisogna aver pazienza» dicono, e intanto i giorni passano e Matteo continua a dormire. Quando si sveglierà si saprà come sta. Se decide di svegliarsi.
A volte penso al senso che avrebbe se se ne andasse. Perché può capitare e non voglio essere impreparato. Matteo compie ventisei anni il mese prossimo. Sembrerebbe un lasso di vita troppo breve, noi siamo abituati a misurare il tempo con nostri criteri. Ho visto tanta gente, giovani, adulti, passare qui in queste giornate. Chi può dire quanta è lunga una vita, il valore e il significato che ogni singolo giorno ha sull’esistenza?… Ciò che lasciamo quando implodiamo, e lasciamo come lo schiocco dell’aria che percepisce la nostra assenza. Alla fine siamo vivi ogni volta che qualcuno ci pensa. Che ci immagina seduti di fianco a lui sul divano, mentre muoviamo il capo e sorridiamo, al nostro amico che ci ha chiamato, per un attimo, da dove eravamo.
“RISVEGLIO”
Matteo apre gli occhi alle sei del mattino, li ha tenuti chiusi un mese ma si sente sveglio da tempo, non sa da quanto. Da tempo sente le voci di chi lo va a trovare, percepisce le loro emozioni nei toni, nelle pause che fanno mentre parlano.
Lui invece non parla e non vuole parlare. Non vuole neanche suonare il campanello, neanche si chiede se ha la forza per farlo. Prima o poi entrerà qualcuno.
È l’infermiera la prima, dal gemito che emette quando vede che è sveglio capisce che è Cristina, è carina, è strano dare un viso a quella voce, lo lavava, gli diceva che era giovane, che aveva ancora tante cose da fare.
Cosa ne sai Cristina, pensa Matteo, di cosa significa vivere, di cosa è sul serio.
Mentre aveva gli occhi chiusi sua madre accettava la possibilità della sua morte, la accettava anche lui. Non fa differenza, esserci o non esserci è la stessa cosa. Gli sembravano così falsi i discorsi della gente, il tenersi aggrappati alle loro relazioni per sentirsi in equilibrio sul nulla che c’è.
I suoi amici, le donne, Lana, ora gli sembrava così vuoto tutto quello, come un bicchiere di plastica bianco, posato su un tavolino da picnic quando è finita la festa.
Avevano sfilato tutti mentre teneva gli occhi chiusi… Simone, piccolo triste amico. Non erano che naufraghi che si aggrappavano l’un l’altro per non affondare, e invece si trascinavano giù, a fondo.
Tante donne. Molte lo avevano amato e lui aveva amato loro, come era stato tutto così ininfluente. Solo e soltanto voci e visi, vite che vanno per la loro strada… Verso la morte, e tutta la sofferenza che cerchiamo, per riempirci la pancia, fino a non poterne più, per essere sazi quando alla fine ci viene chiesto di andare.
«Mi vedi? Stai bene? Riesci a parlare?» fa l’infermiera Cristina portandosi le mani al petto.
Neanche apro gli occhi è già giù con le domande, pensa Matteo, non mi va proprio di rispondere, facesse le cose del caso, posso non esserci, non partecipare, è la stessa cosa.
«Vado a chiamare il medico aspetta» dice correndo.
Dove vuoi che vada, non ho voglia di andare da nessuna parte e non so neanche perché sono tornato, credevo di avere la pancia ben gonfia, mi chiedo cosa sia questa storia.
Il medico entra, ora c’è anche un’altra infermiera, deve essere Sandra, lei è piccolina, mora, giovane, con dei sandali olandesi bianchi.
«Bentornato» fa il medico, avrà quarant’anni, un pizzo sul mento stretto e un naso tagliente. Mi sente il polso.
«Bisogna che lei porti pazienza» mi dice.
Cosa significa poi portare pazienza? Cosa ne sa lui del perché sono tornato, crede forse di avermi salvato? È solo una cabala che rotola sul selciato e prima o poi viene fuori il tuo numero.
Gli sputerei in faccia a ‘sto medico se non me ne fregasse così poco.
Passo tutta la mattinata in silenzio, è incredibile, tra quelli che vengono a trovarmi c’è ancora chi fa finta che dormo, che non ascolto o che sono completamente rincoglionito. Quanto è imbarazzante l’uomo con le sue paure, le sue ignoranze, i suoi gesti goffi.
Simone mi avrebbe fatto anche ridere se ridere servisse a qualcosa, mi ha parlato, insultato, quando ha passato in rassegna i miei antenati l’infermiera è uscita dalla stanza. Mi ha detto che li ho fatti preoccupare, che stavano impazzendo.
Siamo tutti pazzi, misero amico, alcuni solo non lo sanno.
Tutto ora quadra, sono ancora stanco ma comincio a capire.
È venuta Lana, sola, chissà se Marco non poteva o se lei credeva non fosse il caso. È patetica, ha scavato un badile alla volta la mia fossa, e ora se ne sta qui, sulla terra ancora smossa e fresca, a guardarmi con occhi da coccodrillo.
Quanta energia generiamo con le nostre azioni e le nostre emozioni, quasi dovessimo sfamare un mostro avido.
Non capisco come ho fatto ad amarti, come ho potuto pensarlo. Siamo così diversi.
Mi ha accarezzato la testa, è stata sempre zitta, questo l’ho apprezzato, non c’era proprio nulla da dire.
Il suo odore che tanto mi aveva eccitato ora è tornato ad essere un odore qualunque, è la prima volta che l’ho vicina e non ho un’erezione. Sono libero, da lei e da me stesso.
Era una donna qualunque, una triste donna qualunque, io ero un essere insignificante. Solo la miseria ci aveva uniti.
La passione altro non è che lenzuola sudate e pelle contro pelle per scaldarsi e ingannarsi.
È tutto finito.
È andata via; dopo un po’ è entrato il medico, ancora una volta ha messo mano alla macchina e mi ha sentito il polso.
«Ci vuole pazienza» mi ha detto ancora. Dovrà piacergli il suono della frase.
In serata è passata Jenny, anche lei mi fa pena, i suoi casini creati di proposito per avere la testa occupata. Se sei una persona con un po’ di cervello ti complichi la vita… Bisogna tenersi occupati.
Eppure non abbiamo bisogno di niente. Perché siamo niente, siamo solo troppo deboli per accettarlo.
Ora dormirò un po’, Jenny stia pure qua se vuole, affari suoi, peccato… sono stanco, mi veniva in mente qualcosa che poteva fare ancora più chiarezza.
Devo ricordare tutto, non posso perdere questa occasione, tutti i miei rapporti vanno rivisti ora che so… ma ho sonno, troppo sonno, e devo dormire.
FINALMENTE…
Oggi è passato di nuovo il medico, non so cosa venga a fare. Sta sempre pochi minuti, sferraglia su quella diavolo di macchina, mi sente il polso e dice che ci vuole pazienza.
Incide così poco l’uomo sulla vita dell’uomo stesso, se devi andare vai, non c’è nulla da fare. Puoi avere denaro, ma se hai un cancro non serve a nulla, non serve a nulla l’affetto, lo starsi vicino. Si muore soli e questo è quanto, la gente ci dimentica, in un attimo fa a meno di noi. Cos’altro si può fare d’altronde.
Le infermiere mi mancano di più di quanto non mi manchi il medico. Non mi sogno neanche di chiamarle, di chiedere la loro compagnia, ma quando tardano ad arrivare, quando sono di corsa, non mi dedicano la giusta attenzione lo noto e ne soffro. Soffro più per delle estranee che per i miei genitori e per i miei amici. Non ho mai visto le cose in questa prospettiva, deve essere un dono del posto dove sono stato, qualcosa che mi è rimasto attaccato addosso. Se solo non fossi così stanco e non arrivasse il sonno sul più bello, proprio quando sto afferrando qualcosa di nuovo…
Devo mettermi a scrivere, a fissare i pensieri su carta per non scordarli, quando avrò più energie. Ieri sono stato mezza giornata a pensare, a rimuginare su qualcosa di importante, ma stamattina quando ho aperto gli occhi ne conservavo appena un ricordo confuso, ci ho messo tanto a ritrovare il bandolo della matassa e qualcosa l’ho persa. Chiederò carta e penna quando mi andrà di parlare.
Continua…
( parte 1) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-1/
(parte 2) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-parte-2/
(parte 3) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-3/
(parte 4) https://www.colorivivacimagazine.com/2015/12/amore-chimico-di-davide-venticinque-parte-4-2/
CREDIT PHOTO COPERTINA
Una partita senza punteggio
Fotografia di Isabella Sellitri
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