Il pesce vedovo
Nuota nell’Ave Maria adesso, sulle note di Schubert. La gola serrata dall’indicibile, nel lutto simbolico di tutto un oceano che s’asciuga improvviso. Non l’avessi visto ritirarsi, di giorno in giorno, per farsi pozzanghera e poi deserto. Sottolineando con la matita scura sempre la stessa frase. E canta la Callas del suo miracolo, poetica intercessione tra opposti elementi: che l’aereo mare lo assuma, cancellando le frontiere. Seguivi con l’indice le sue fluide danze, gli occhi stretti dall’altra parte della vasca, ridendo per la pinna lunga e il profilo lunare, strisciato di nero come un pianoforte pulsante. Una corona di piante acquatiche e mangrovia, per un piccolo guerriero nel rettangolo del tuo esilio. D’estrema cura e conchiglie rosa andaluse, pietre bianche e lucide biglie, rottami di un domicilio artistico, infinitesimo, una bomboniera viva nella credenza antica. Un inchino alla morte vestita d’organza, attesa in fondo, perché cali il sipario sulla brutta sceneggiatura che hai scritto e continuato abusivamente in postfazione. E lui nuotava nel vetro, prendendo in giro i tuoi rituali segreti, le costruzioni allegoriche, il feticismo metamorfico. Quel pesce muto, minimo backgammon ambulante, dono tanto amato, che ti strappava sorrisi nottetempo, prendendo in giro il tuo rumore. Non c’è più. Nel teatro grottesco della stanza. D’altari e spazzatura, grafite, inchiostro e bellissime torri d’avorio. L’ipnosi del suo moto e quei significati che gli hai cucito addosso: tutto insopportabilmente evapora. E tu ascolti l’Ave Maria. Che nessuno ti dica di non piangere per una dipartita così insignificante. Perché nessuno sa quanto ami certe piccolezze e quanto costa arrivare all’ultima pagina. Dei significati e dei numeri, dell’odio e dell’amore in un chicco di caffè. E ti dicano pure che sei ridicolo, anche il pesce lo pensava senza potersi esprimere. Nel mondo alla rovescia le proporzioni sono relative. Abbandonando le convenzioni della misura, per sentire ogni cosa nella sua veste più autentica: un piccolo pesce è un’immensa metafora. Ma non come tutti gli oggetti che pur hanno altre significazioni: lui era vivo. E il disagio necessario nel disfarsi di un qualche concentrato materico-allegorico, si moltiplica nell’ineluttabile curva di un’esistenza su cui è negato il controllo, il tocco. Non è come quando accarezzi un tessuto ricordando da dove viene, lo stringi al petto per poi riporlo da qualche parte. Godendo di queste cerimonie da sempre, come degli spaghetti nell’acqua che bolle, della colla sulle mani o dell’odore di una boccetta vuota di profumo. Non è la stessa cosa della scatola dei ricordi, della striscia di moquette verde e carte di caramelle, biglietti del cinema o del cigno chiuso con una pallina di piombo in una scatolina blu, della mentos incastrata con un filtro nel tappo di una birra straniera. Non è la stessa cosa: è un dolore nuovo. Prolifico come ogni dolore, ma più esteso. Perché il pesce per te è la verità. E non ti è mai importato della fenomenologia esteriore, non qui. Nel profondo meditativo del sentire. Versi quindi il tuo tributo alla verità che già esisteva, fuori.
Ascolti adesso Il Danubio Blu di Strauss, che il pesce impari a volare lontano sulle note di un valzer.
-https://www.youtube.com/watch?v=sE1WoMocTlw
-https://www.youtube.com/watch?v=lkzWF1UE1CI
Delia Cardinale