Fra tradizione, eccessi e nuove tecnologie: un viaggio nella musica giapponese
Quando si pensa alla musica giapponese vengono subito in mente le sigle degli anime o gli austeri motivi che accompagnano il teatro Nō, ma la realtà è molto più complessa. Il mercato musicale giapponese è il secondo più grande del mondo ed è incredibilmente sfaccettato. Durante il Festival dell’Oriente di Bari hanno tenuto una conferenza su questo argomento gli esperti nippofili Alessio Giungato e Antonella Potenza del Centro di lingua e cultura giapponese Momiji di Bari.
Prima dell’anno mille non si hanno notizie della musica giapponese, successivamente si inizia a parlare di ongaku (音楽), parola che nasce dall’unione degli ideogrammi di “suono” e “piacere”. Due sono le tipologie presenti nell’epoca Heian: lo shōmyō, cori buddisti con funzione religiosa, e il gagaku, un connubio di musica e danza per intrattenere la corte dell’imperatore. Così come in Cina i giapponesi usavano scale musicali pentatoniche, sia perché gli strumenti non erano in grado di riprodurre le nostre sette note e sia per motivi culturali (le note dovevano essere cinque come cinque erano gli elementi: terra, fuoco, acqua, aria e “vuoto”). Gli strumenti tradizionali nipponici sono il taiko (tamburo), la biwa (liuto a 5 corde), lo shamisen (sorta di chitarra a 3 corde) e lo shakuhachi (flauto a 5 buchi). Grazie a cantastorie itineranti, di solito non vedenti che suonano la biwa o monaci mendicanti, intorno al Quattrocento la musica si diffonde anche tra i ceti popolari. Solo dopo la Restaurazione Meiji (1866 – 1869) arriva l’influenza occidentale: si introducono le scale musicali europee e nasce l’enka, una ballata sentimentale. In epoca Shōwa (1926-1989) si parla di ryūkōka, musica meno drammatica degli enka ottocenteschi, e kayokyoku, musica popolare più occidentalizzata.// <![CDATA[
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// ]]>Grandissimo successo ha Chiyako Sato (1897-1968) con la struggente Habu no Minato (1928), che vende 100mila copie. Nel 1930 Chiyako si trasferisce però in Italia, sperando di poter diventare una star, ma finisce col morire dimenticata. Nel dopoguerra con l’occupazione militare (1945-1952) i soldati americani diffondono la loro musica, creando le condizioni per la nascita di cover band giapponesi che si esibiscono in basi militari statunitensi come quella di Okinawa. A partire dagli anni 60 queste band cercano di proporre brani propri, dando così vita a un vero e proprio J-rock di ispirazione psichedelica o progressive, di cui un esempio è Keiji Haino (1952). Negli anni 80, grazie agli X-Japan prima e a L’Arc~en~Ciel e Dir en grey poi, nasce il visual kei, un glam rock giapponese ancora più estremo di David Bowie e compagni. Molto in voga fino ai 90, il visual kei ottiene un buon successo anche in Occidente e ispirerà gruppi emo come i Tokyo Hotel. Ma proprio a partire dai 90, in corrispondenza con la grande recessione che colpisce il Sol Levante, comincia ad affermarsi un nuovo genere, il J-pop, più melodico e commerciale. I tempi sono bui e il pubblico preferisce una musica più leggera e disimpegnata; nascono così boy-band e girl-group come gli Arashi o le Morning Musume. Alla fine dei 90 l’album First love di Utada Hikaru diventa l’album giapponese più venduto di sempre. Successivamente la Hikaru diventerà famosa anche in Italia per aver sposato nel 2014 a Polignano a Mare il pugliese Francesco Calianno, conosciuto quando faceva il barman in un hotel a Londra e diventato l’uomo più invidiato in Giappone. Forse è proprio la decennale crisi economica, che mette in dubbio certezze come il posto fisso a vita, a indurre i giovani a rifugiarsi in un mondo puccioso, dove tutto diventa kawaii (“carino”). Si impongono così fenomeni come gli otaku (fanatici di manga e anime) o, in campo musicale, le idol. Idol, in realtà, possono essere sia ragazzi che ragazze, fatti debuttare all’età di 13-14 anni da agenzie apposite, dopo essere stati addestrati a cantare, ballare e recitare. Tra le più famose ci sono le AKB48, un super-gruppo di 92 cantanti adolescenti (quando diventano troppo anziane, vengono subito sostituite), che si esibiscono a rotazione ogni giorno nel loro teatro ad Akibahara, per la gioia dei fan disposti a code chilometriche per ottenere un autografo o una stretta di mano. Ogni singolo delle AKB48 vende oltre un milione di dischi, cifre ormai impensabili per i musicisti occidentali. Ci sono anche idol virtuali come Hatsune Miku, un ologramma che canta con voce sintetizzata al computer, oppure vere e proprie riproduzioni viventi di manga come l’ex fashion blogger Kyary Pamyu Pamyu (1993), amatissima da star americane come Katy Perry o Gwen Stefani. Ma i vertici artistici più elevati la musica giapponese li ha probabilmente raggiunti nelle colonne sonore. Per il cinema basti pensare all’acclamatissimo Ryūichi Sakamoto (1952), compositore delle musiche di film come Furyo (1983), L’ultimo imperatore (1987) e Il tè nel deserto (1990). Per gli anime c’è solo l’imbarazzo della scelta, ma su tutti spicca Joe Hisaishi (pseudonimo di Mamoru Fujisawa, 1950), collaboratore inseparabile di Hayao Miyazaki. Mentre per i videogiochi come non ricordare Kōji Kondō (1961), autore delle musiche di Super Mario Bros e The Legend of Zelda e Nobuo Uematsu (1959), autore delle musiche di quasi tutti i Final Fantasy. L’importanza di questo nuovo genere è ormai riconosciuta da seguitissimi tour mondiali di concerti sinfonici come The Legend of Zelda: Symphony of the Goddesses, sold-out a settembre al Teatro degli Arcimboldi di Milano, o Distant Worlds: music from Final Fantasy, che tornerà in Italia il 12 maggio 2017 al Teatro Linear Ciak sempre a Milano.
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