Dell’educazione dei fanciulli
Dell’educazione dei fanciulli
Michel Eyquem de Montaigne (1533 – 1592)
Capitolo ventisei del primo libro degli Essais (1580), Milano, Bompiani, 2012, pp. 261-323.
A Madama Diane de Foix, Contessa de Gurson
Non ho mai visto un padre che, per quanto tignoso o gobbo fosse suo figlio, non lo riconoscesse per suo. Non già che non si accorga del difetto, a meno che l’affetto non l’abbia completamente accecato; ma tant’è, è suo. Così io vedo meglio di chiunque altro che queste non son che le fantasticherie d’un uomo che delle scienze ha assaggiato solo la crosta esteriore, nella sua fanciullezza, e ne ha ritenuto solo un’immagine generica e informe: un po’ di ogni cosa e niente del tutto, alla francese. Perché, insomma, io so che c’è una medicina, una giurisprudenza, quattro parti della matematica, e all’ingrosso di che cosa trattano. E forse conosco anche la pretesa delle scienze in generale di esser d’utilità alla nostra vita. Ma andare più a fondo, essermi logorato sui libri studiando Aristotele, sovrano della scienza moderna, o essermi intestato su qualche scienza, questo non l’ho mai fatto; e non c’è arte di cui saprei tratteggiare nemmeno i primi lineamenti. E non c’è ragazzo delle classi medie che non possa dirsi più sapiente di me, che non so neppure quanto basta a interrogarlo sulla sua prima lezione, almeno secondo la lettera. E se mi ci obbligano, sono costretto, assai goffamente, a tirarne fuori qualche argomento di discorso più generale, in base al quale esamino il suo ingegno naturale. Lezione che è loro tanto sconosciuta quanto la loro a me. Non mi sono familiarizzato con nessun libro solido, eccetto Plutarco e Seneca, ai quali attingo come le Danaidi, empiendo e versando senza posa. Ne metto qualcosa in questi fogli; in me, men che nulla. La storia è più di mio genio, o la poesia, che amo di un particolare amore. Infatti, come diceva Cleante, allo stesso modo che la voce, compressa nella stretta canna di una tromba, esce più acuta e più forte, così mi sembra che la frase, costretta nei metri armoniosi della poesia, prenda uno slancio e una forza maggiori e mi colpisca con più fiera scossa. Quanto alle facoltà naturali che sono in me, e che qui son messe alla prova, le sento piegare sotto il peso. I miei pensieri e il mio giudizio procedono a tastoni, tentennando, vacillando e inciampando. E quando sono andato più avanti che ho potuto, non mi son sentito per nulla soddisfatto. Vedo ancora altre terre più in là, ma in una visione confusa e in una nebbia che non riesco a dissipare. E accingendomi a parlare indifferentemente di tutto quanto si presenta alla mia fantasia e senza servirmi altro che dei miei mezzi propri e naturali, se mi capita, come spesso accade, d’incontrar per caso nei buoni autori quei medesimi punti che ho preso a trattare, come mi è successo or ora di trovare in Plutarco il suo discorso sulla forza dell’immaginazione: nel riconoscermi, a confronto di quelli, tanto debole e misero, tanto lento e tardo, faccio pietà o sdegno a me stesso. E tuttavia mi compiaccio che le mie opinioni abbiano l’onore di corrispondere spesso alle loro, e che almeno li seguo da lontano, affermandole vere. Ed anche che ho quello che non tutti hanno, di riconoscere l’enorme differenza fra loro e me. E nondimeno lascio correre le mie idee così deboli e basse come le ho generate, senza rabberciare e raggiustare i difetti che quel confronto mi ha rivelato. Bisogna aver le reni ben salde per mettersi a camminare fronte a fronte con quelli. Gli scrittori imprudenti del nostro tempo, che in mezzo alle loro opere da nulla vanno seminando interi passi di antichi autori per farsene onore, ottengono l’effetto opposto. Poiché quell’infinita disparità di splendore dà a ciò che è loro un aspetto tanto pallido, sbiadito e brutto, che vi perdono assai più che non vi guadagnino. Si ebbero due tendenze opposte. Il filosofo Crisippo inframezzava nei suoi libri non solo alcuni passi, ma opere intere di altri autori, e in uno addirittura la Medea di Euripide; e Apollodoro diceva che se si fosse tolto quel che c’era di estraneo, i suoi fogli sarebbero rimasti bianchi.Epicuro, al contrario, nei trecento volumi che lasciò, non aveva messo una sola citazione di altri. […] Comunque sia, voglio dire, e quali che siano queste sciocchezze, non ho deciso di tenerle nascoste, non più di un ritratto di me calvo e incanutito dove il pittore avesse messo non un volto perfetto, ma il mio. Perché, allo stesso modo, ci sono qui i miei umori e le mie opinioni. Le do come cose che credo io, non come cose che si debbano credere. Qui miro soltanto a scoprire me stesso, e sarò forse diverso domani, se una nuova esperienza mi avrà mutato. Non ho autorità per essere creduto, né lo desidero, sentendomi troppo male istruito per istruire gli altri. Qualcuno, dunque, avendo visto il capitolo precedente, mi diceva l’altro giorno a casa mia che avrei dovuto dilungarmi un po’ a proposito dell’educazione dei fanciulli. Ora, Madama, se avessi qualche competenza in questo argomento, non potrei impiegarla meglio che facendone un presente a quell’ometto che minaccia di uscir presto allegramente dal vostro grembo (siete troppo generosa per cominciare altrimenti che con un maschio). Di fatto, io, che ho avuto tanta parte alla conclusione del vostro matrimonio, ho qualche diritto e qualche interesse alla grandezza e prosperità di tutto quello che ne verrà; oltre che l’antica potestà che avete sui miei servigi mi obbliga di per sé a desiderare onore, bene e fortuna a tutto quello che vi riguarda. Ma, in verità, sono edotto solo di questo: che la maggiore e più grave difficoltà della scienza umana par che s’incontri proprio là dove si tratta dell’educazione e dell’istruzione dei fanciulli. Come nell’agricoltura le operazioni che precedono il piantare sono determinate e facili, e così il piantare medesimo. Ma quando ciò che è stato piantato comincia a vivere, per farlo crescere si ha una gran varietà di modi e molte difficoltà: così per gli uomini, ci vuol poca abilità a piantarli, ma dopo che sono nati ci si addossa un compito diverso, pieno di affanni e di ansie, per educarli e allevarli. I segni delle loro inclinazioni son così tenui in questa prima età, e così oscuri, le promesse così incerte e fallaci, che è difficile stabilire su queste un giudizio sicuro. Guardate Cimone, guardate Temistocle e mille altri, come hanno smentito se stessi. I piccoli degli orsi, dei cani, rivelano chiaramente la loro inclinazione naturale; ma gli uomini, immergendosi immediatamente fra usanze, opinioni, leggi, mutano o si mascherano facilmente. Eppure è difficile forzare le propensioni naturali. Da questo deriva che non avendo ben scelto la loro strada, spesso ci si affatica per nulla e si impiega molto tempo a indirizzare i fanciulli a cose nelle quali non possono riuscire. Tuttavia, in tale difficoltà, la mia opinione è che si debba avviarli sempre alle cose migliori e più giovevoli, e che si debbano trascurare quei leggeri indizi e quei pronostici che si traggono dagli atteggiamenti della loro infanzia. Anche Platone, nella Repubblica, mi pare che dia loro molta importanza. […]