folie dans les récits
Les grands artistes sont ceux qui imposent à l’humanité leur illusion particulière.
Préface de Pierre et Jean, Guy de Maupassant 1887
Henri-René-Albert-Guy de Maupassant (Tourville-sur-Arques, 5 agosto 1850 – Parigi, 6 luglio 1893) Nei suoi racconti, come numerosi scrittori della fine dell’Ottocento, presta attenzione al misterioso, invisibile, inspiegabile, paranormale, sovrannaturale. I suoi interessi infatti sono lo spiritismo (studia Allan Kardec), la teosofia, l’ipnotismo, il magnetismo (legge i lavori di Mesmer), la telepatia, segue Charchot di cui fu allievo e l’ipnosi nella famosa scuola di neuro psichiatria della Salpêtrière a Parigi. Per Maupassant la follia non è l’antitesi ad una sanità psichica o morale, i pazzi colgono cose precluse all ’uomo ragionevole, e quest’idea la propone in molti dei suoi lavori.
Un fou? (1884)
Quando mi dissero: “Sapete che Jacques Parent è morto pazzo in una casa di salute?” sentii nelle ossa un brivido di paura e d’angoscia: e lo rividi improvvisamente, quel giovanottone strano, pazzo già da molto tempo, forse , maniaco che turbava, che incuteva addirittura timore. Era un uomo di quarant’anni, alto, magro, un po’ curvo, con occhi da allucinato, occhi neri, così neri che non se ne distingueva la pupilla, occhi mobili, vaganti, malati, stregati: un essere singolare, inquietante, che suscitava, che diffondeva intorno a sé un disagio, un indefinito disagio dell’anima e del corpo, una di quelle depressioni incomprensibili che fanno credere a influenze soprannaturali. Aveva un tic fastidioso: l’avversione a mostrare le mani. Non le lasciava quasi mai indugiare, come facciamo noi tutti, sugli oggetti, su un tavolo. Non toccava mai le cose esposte qua e là col gesto che è familiare a quasi tutti gli uomini. Non le lasciava mai nude, quelle sue lunghe mani ossute, fini, un po’ febbrili. Le sprofondava nelle tasche o sotto le ascelle incrociando le braccia. Si sarebbe detto avesse paura che, suo malgrado, facessero un gesto proibito, compissero un’azione vergognosa o ridicola, qualora le avesse lasciate libere o arbitre dei loro movimenti. Quand’era obbligato a servirsene per gli usi ordinari della vita, lo faceva con scatti veloci, con rapide mosse del braccio quai non avesse voluto lasciar loro il tempo di agire da sole, di rifiutarsi alla sua volontà, di eseguire altra cosa. A tavola afferrava il bicchiere, la forchetta o il coltello così vivamente che non si aveva mai il tempo di prevedere ciò che volesse fare prima che già fosse fatto. Orbene, una sera ebbi la spiegazione della sorprendente malattia del suo spirito.Egli veniva di quando in quando a passare qualche giorno in campagna da me, e quella sera mi pareva particolarmente agitato Dopo una giornata di calore atroce, nel cielo oscuro e soffocante si preparava un temporale. Non un soffio d’aria muoveva le foglie. Un caldo vapore da forno passava sul viso, rendeva ansimante il respiro. Mi sentivo a disagio, inquieto, e decisi d’andare a letto. Vedendo che mi alzavo per uscire, Jacques Parent mi prese il braccio con un gesto di sgomento. “Oh no, rimani ancora un poco” mi disse. Lo guardai, sorpreso, mormorando: “Questo temporale mi dà ai nervi.” Gemette, o piuttosto gridò: “E a me? Oh, trattieniti, prego, non vorrei rimaner solo.” Aveva un aspetto sconvolto. Dissi: “Che cos’hai? stai perdendo la testa?” “Sì, in certi momenti, in sere come questa, nelle sere di elettricità… ho… ho… ho paura… paura di me… non capisci? Vedi io sono dotato d’un potere… no… d’una potenza… no… d’una forza… Insomma, non so dire che cosa sia, ma c’è nella mia persona un’azione magnetica così straordinaria che ho paura, sì, ho paura di me, come dicevo poc’anzi!” Nascondeva sotto le falde della giacca le mani vibranti, scosso da grandi brividi. E io stesso sentii improvvisamente che tremavo tutto d’un timore confuso, potente, terribile. Avevo voglia di andarmene, di fuggire, di non vederlo più, di non vedere più il suo occhio errante passare su di me e poi sfuggire, vagare intorno al soffitto, cercare qualche angolo oscuro della stanza per fissarvisi, quasi avesse voluto nascondere anche il suo temibile sguardo. Balbettai: “Non me lo avevi mai detto!” Riprese: “Ma l’ho forse detto a qualcuno? Ebbene, ascolta, questa sera non posso tacere, e preferisco che tu sappia tutto: d’altronde, potrai forse aiutarmi. Il magnetismo! Sai che cosa sia? Nessuno lo sa. Eppure è ammesso, è dimostrato, e i medici stessi lo praticano: uno dei più illustri, Charcot, ne è fautore; dunque, senza alcun dubbio, esso esiste. Un uomo, un essere, ha lo spaventoso e incomprensibile potere d’addormentare con la forza della propria volontà un altro essere, e mentre questi dorme, di sottrargli il pensiero come si ruberebbe un portafogli. Gli ruba il pensiero, vale a dire l’anima, l’anima, questo santuario, questo segreto dell’Io, l’anima, questo recesso dell’uomo ch’era ritenuto impenetrabile!L’anima, questo asilo dei pensieri inconfessabili, di tutto ciò che si nasconde, di tutto ciò che si ama, di tutto ciò che non si vuol cedere alla comune degli uomini, egli la schiude, la viola, la mette a nudo, la getta al pubblico. Non è atroce, delittuoso, infame?Perché e come avviene tutto ciò? Chi lo sa? Ma che cosa si sa? Tutto è mistero. Noi comunichiamo con le cose solo mediante i nostri poveri sensi incompleti, malati, così deboli che appena hanno il potere di constatare ciò che ci attornia. Tutto è mistero. Pensa alla musica; che cos’è quest’arte divina, quest’arte che turba l’anima, la travolge, l’inebria, la dissenna? che cos’è? Nulla. Non mi capisci? Ascolta. Due corpi si urtano: l’aria vibra. Queste vibrazioni sono più o meno forti, secondo la natura dell’urto. Ebbene, noi abbiamo nell’orecchio una membrana che riceve queste vibrazioni dell’aria e le trasmette al cervello sotto forma di suoni. Immagina che un bicchier d’acqua si muti in vino nella tua bocca. Il timpano compie questa incredibile metamorfosi, questo sorprendente miracolo di trasformare il movimento in suono. Ecco qui! La musica, quest’arte complessa e misteriosa, precisa come l’algebra e vaga come il sogno, quest’arte fatta di matematica e di aria, deriva dunque soltanto dalla strana proprietà d’una membrana. Se questa membrana non esistesse, nemmeno il suono esisterebbe, dato ch’esso è soltanto vibrazione. Senza l’orecchio, s’indovinerebbe la musica? No. Ebbene, noi siamo circondati da cose che non potremmo mai supporre perché ci mancano gli organi atti a rivelarcele. Il magnetismo è forse una d’esse: non possiamo che presentirne la potenza, che tentare tremando questa vicinanza degli spiriti, che coltivare questo nuovo segreto della natura, perché non abbiamo in noi lo strumento rivelatore. Per quello che mi riguarda… Per quello che mi riguarda, io sono dotato d’una potenza spaventosa. Si direbbe che in me ci sia un altro essere che vuole incessantemente evadere, agire mio malgrado, che si agita, mi logora, mi spossa. Chi è? Io non so, ma siamo due nel mio povero corpo, e lui, l’altro, è spesso il più forte, come stasera. Non ho che guardare un individuo per assopirlo come se gli propinassi dell’oppio. Non ho che a stendere le mani per produrre certe cose…certe cose… terribili. Se tu sapessi!… Già, se tu sapessi! Il mio potere non si estende soltanto agli uomini ma agli animali e persino…. agli oggetti… E’ una cosa che mi tortura e mi spaventa. Spesso sono stato tentato di cavarmi gli occhi e di tagliarmi i polsi.Ma ti farò… voglio che tu sappia tutto. Sta’ a vedere… Ti darò una dimostrazione… non già su creature umane, come si fa di solito, ma su… su… una bestia. Chiama Mirza.” Camminava a lunghi passi, con un aspetto di allucinato, e liberò le mani che teneva nascoste in petto: mi sembrarono spaventose, come se avesse messo a nudo due spade. Gli obbedii macchinalmente, soggiogato, vibrando di terrore e come divorato da un desiderio impetuoso di vedere. Apersi la porta e fischiai alla cagna che dormiva nell’ingresso. Subito udii il rumore precipitato delle sue unghie sui gradini della scala, ed essa apparve scodinzolando, contenta. Le feci cenno di sdraiarsi su una poltrona: essa vi saltò, e Jacques cominciò a carezzarla guardandola. A tutta prima essa sembrò inquieta; rabbrividiva, voltava la testa per evitare l’occhio fisso dell’uomo, pareva agitata da un timore nascente. Improvvisamente cominciò a tremare, come appunto tremano i cani. Tutto il suo corpo palpitava, scosso da lunghi fremiti, ed essa accennò a fuggire. Ma Jacques le pose la mano sul cranio, e sotto quel tocco essa emise uno di quei lunghi ululati che si odono, di notte, in campagna. Io stesso mi sentivo intorpidito, stordito come lo si è in barca. Vedevo i mobili piegarsi, muoversi i muri. Balbettai: “Basta, Jacques, basta.” Ma egli non mi dava più retta: guardava Mirza con una fissità incessante, spaventosa: essa chiudeva gli occhi e lasciava cadere la testa come si fa addormentandosi. Jacques si volse a me. “E’ fatto” disse. “Ora sta’ a vedere.” E gettando il fazzoletto all’altra estremità della stanza gridò: “Porta qui!” Allora la bestia si sollevò e vacillando come se fosse stata cieca, muovendo le zampe come i paralitici muovono le gambe, se ne andò verso il pannolino che formava una macchia bianca contro il muro. Tentò più volte di prenderlo tra le fauci, ma mordeva di fianco quasi non lo vedesse. Lo colse infine, e tornò con la stessa andatura dondolante di cane sonnambulo. Era una cosa terrorizzante a vedersi. Jacques comandò: “Cuccia!” La cagna si accucciò. Allora, toccandole la fronte, egli disse: “La lepre! Dagli! dagli!” E la bestia, sempre di sghimbescio, cercò di correre, si agitò come i cani fanno sognando, e senza aprire le fauci diede in piccoli latrati di ventriloquo. Jacques sembrava impazzito. La sua fronte era bagnata di sudore. Gridò: “Dagli, dagli al tuo padrone!” Mirza ebbe due o tre sussulti terribili. Si sarebbe giurato che resisteva, che lottava. Egli ripeté: “Dagli!” Allora, alzandosi, la cagna venne nella mia direzione, e io arretrai verso il muro, fremendo di spavento, e alzai il piede, pronto a colpirla. Ma Jacques ordinò: “”Qui subito.” Mirza tornò verso di lui. Allora, con le sue grandi mani egli si mise a stropicciarle la testa come a liberarla da invisibili legami. Mirza riaperse gli occhi. “Basta” disse Jacques. Non ardivo toccare la cagna, e apersi la porta perché se ne andasse. Essa uscii lentamente, tremando, spossata, e io udii di nuovo le sue unghie colpire i gradini. Ma Jacques mi s’avvicinò: “Non è tutto” disse. “Vedi quello che più mi spaventa: gli oggetti mi obbediscono.” C’era sul tavolo una sorta di coltello-pugnale del quale mi servivo per tagliare le pagine dei libri. Jacques allungò verso di esso la mano, che sembrava strisciare avanzando lentamente: e d’improvviso vidi – sì, vidi! – il coltello trasalire, poi muoversi, poi scivolare adagio adagio, da solo, verso la mano che lo aspettava, e andare a porsi sotto le dita. Mi misi a gridare dal terrore. Mi pareva che anch’io impazzissi: ma il suono acuto della voce di Jacques mi calmò istantaneamente. Egli diceva: “Tutti gli oggetti vengono così verso di me. E’ per questo che nascondo le mani. Che cosa significa?E’ magnetismo, elettricità, calamità? Non so: ma è orribile. E capisci perché è orribile? quando sono solo, non appena sono solo, non posso impedirmi di attirare tutto ciò che mi sta intorno. Passo intere giornate a mutar posto alle cose, senza mai stancarmi di esercitare questo potere abominevole, quasi per assicurami che esso non mi abbandona. Aveva sprofondato le grandi mani nelle tasche e guardava fuori nel’oscurità. Un leggero rumore, un fremito lieve sembrava passare sugli alberi. Era la pioggia che cominciava a cadere. Mormorai: “E’ spaventoso.” Egli annuì: E’ terribile.”Un fragore si produsse nel fogliame, come una ventata. Era l’acquazzone, la pioggia fitta, torrenziale. Jacques cominciò a respirare con grandi aspirazioni che gli sollevavano il petto. “Lasciami” disse. “La pioggia mi calmerà. Ora desidero rimaner solo.”
lettre d’un fou (1885)
Mio caro dottore, mi metto nelle vostre mani. Fate di me quello che credete. Vi sto descrivendo francamente lo stato della mia mente, così voi giudicherete se è meglio essere preso in cura per qualche tempo in un sanatorio o rimanere in preda alle allucinazioni e sofferenze che mi stanno lacerando. Ecco la storia, lunga e precisa del male particolare della mia anima. Sto vivendo come ogni altro uomo con occhi ciechi ed aperti sulla vita senza stupirmi e senza capire Stavo vivendo come vivono come tutti viviamo, guardando la vita con gli occhi aperti e ciechi dell’uomo, senza stupirmi e senza comprendere. Vivevo come gli animali, come viviamo tutti noi effettuando tutte le funzioni dell’esistenza, esaminando e credendo di vedere, credendo di sapere, credendo di conoscere quello che mi circonda, quando un giorno mi sono accorto che tutto è falso. E’ una frase di Montesquieu che ha illuminato improvvisamente la mia mente. Un organo in più o in meno del nostro corpo ci consentirebbe una diversa intelligenza. Infatti tutte le regole del nostro corpo e di altre cose sarebbero differenti se il nostro corpo fosse diverso. Ho riflettuto su questo parecchi mesi, di mese in mese, e a poco a poco una strana chiarezza è entrata in me ed è comparso il buio. Infatti i nostri organi sono gli unici mediatori fra il mondo esterno e noi stessi. Cioè la nostra interiorità, il nostro ego, è in contatto attraverso alcuni terminali nervosi con la parte esterna del mondo. Inoltre questa mondo esterno ci sfugge per la sua grandezza, durata, proprietà innumerevoli ed impenetrabili, le sue origini, il suo avvenire e i suoi fini, le forme lontane e le manifestazioni infinite, i nostri organi ci danno sulla piccola parte che possiamo conoscere solo informazioni tanto incerte quanto poco numerose. Incerte perché sono unicamente le proprietà dei nostri organi che determinano per noi le proprietà apparenti della materia. Poco numerose perché i nostri sensi solo soltanto cinque, quindi il campo delle indagini e la natura delle rivelazioni sono molto limitate. Mi spiego. L’occhio trasmettere le dimensioni, le forme ed i colori. Ci inganna su questi tre punti. Può rivelare a noi soltanto gli oggetti e gli esseri di una dimensione media del formato umano, per cui usiamo la parola “grande” per determinate cose e la parola “piccola” a determinate altre cose, solo perché la debolezza dell’occhio non permette di far conoscere quello che è troppo immenso o troppo piccolo per esso. Quindi, l’occhio, non conosce e non vede quasi niente dell’intero universo. Come non vede la stella dell’universo che si trova nello spazio ed il microbo che vive in una goccia d’acqua. Anche se il nostro occhio fosse cento milioni di volte più potente, non percepirebbe l’aria che respiriamo, tutte le specie degli esseri invisibili e tutti gli abitanti dei pianeti vicini ed esisterebbero ancora infiniti tipi di animali così piccoli e mondi così distanti, che l’occhio non potrebbe raggiungere. Dunque tutte le nostre idee circa le proporzioni sono false perché non conosciamo i limiti della grandezza e piccolezza. La nostra consapevolezza delle dimensioni e delle figure non ha valore assoluto, poiché è determinata solamente dalla potenza di un organo e da un confronto costante con noi stessi. Aggiungiamo inoltre che l’occhio è incapace di vedere il trasparente. Un vetro perfetto lo inganna. Lo confonde con l’aria che non può essere vista. Passiamo al colore. Il colore esiste perché il nostro occhio è formato in modo tale che trasmette al cervello, sotto forma di colore, i diversi modi in cui i corpi assorbono e decompongono i raggi luminosi che li colpiscono, in funzione della loro composizione chimica. Le varie proporzioni di questo assorbimento e scomposizione, compongono le tonalità di colore. Così questo organo impone alla mente il relativo senso di vedere, o piuttosto il suo modo arbitrario di constatare le dimensioni e di percepire i rapporti di luce con la materia. Esaminiamo l’orecchio. Ancora più che con l’occhio noi siamo gli zimbelli e le vittime di questo organo fantasioso. Due corpi si urtano e producono un certa scossa nell’atmosfera. Questo movimento fa vibrare nel nostro orecchio una piccola parte di pelle che trasforma immediatamente in suono qualche cosa che in realtà non è che una vibrazione. La natura è muta. Ma il timpano possiede le proprietà miracolosa di trasmettere al nostro udito sotto forma di sensazioni differenti tra loro in funzione della quantità di vibrazioni, tutti i fremiti della onde invisibili dello spazio. Dando un significato che cambio secondo il numero delle vibrazioni. Questa trasformazione, realizzata dal nervo uditivo, nel breve tragitto dall’orecchio al cervello, ha permesso che noi generassimo una strana arte, la musica, le arti più poetiche e precise, indefinite come un sogno ed esatte come l’algebra. Che cosa possiamo dire del gusto e dell’odorato?? Riconosceremmo i profumi e la qualità dei vari alimenti senza le proprietà particolari del naso e del palato? L’umanità, tuttavia, potrebbe esistere senza l’orecchio, senza il gusto e l’odore – cioè senza alcuna nozione di suono, gusto ed odore. Quindi se avessimo qualche organo di meno, saremmo ignari delle cose eccellenti ed insolite, ma se avessimo alcuni organi in più, scopriremmo intorno a noi un’infinità di altre cose che non avremmo mai constatato. Dunque ci sbagliamo quando giudichiamo il conosciuto e siamo circondati da un incognito inesplorato. Tutto è incerto e può essere percepito in modi differenti. Tutto è falso, tutto è possibile e tutto è dubbioso. Formuliamo questa certezza usando il vecchio detto: “Verità da questo lato dei Pirenei, errore dall’altra parte”. E diciamo: “Verità in un nostro organo ed errore dall’altro”. Due più due non fanno quattro fuori dalla nostra atmosfera. Verità sulla terra, errore più lontano. Dunque concludo che i misteri come l’elettricità, il sonno ipnotico, la trasmissione di volontà, la suggestione, tutti i fenomeni magnetici, rimangono nascosti perché la natura non ci ha fornito l’organo o gli organi necessari per comprenderli. Dopo essermi convinto che tutto quello che si rivela ai miei sensi esiste solo per me nel modo in cui io lo percepisco e sarebbe totalmente differente per un’altra persona, dopo aver concluso che un’umanità fatta diversamente avrebbe sul mondo, sulla vita, su tutto, sulle idee assolutamente opposte alle nostre, poiché gli accordi sulle nostre credenze sono dovuti solo alla somiglianza dei nostri organi e le divergenze di opinione sono dovuti soltanto dalle differenze di funzionamento dei nostri terminali nervosi, ho fatto un sforzo di pensiero sovrumano per sospettare l’impenetrabile che mi circonda. Sono diventato pazzo? Mi sono detto: “Sono circondato da cose sconosciute”. Ho immaginato l’uomo senza orecchie che sospetta l’esistenza del suono, come noi sospettiamo l’esistenza di tanti misteri nascosti, l’uomo che nota i fenomeni acustici di cui non può determinare né la natura né la provenienza. Ho paura di tutto, intorno a me, paura dell’aria, paura della notte. Dal momento che noi non possiamo conoscere quasi niente e dal momento che tutto è senza limiti, che cosa resta? Il vuoto, non è vero? Che cosa esiste in questo vuoto apparente? Questo terrore confuso del soprannaturale che ha assillato l’uomo dalla nascita del mondo è legittimo perché il soprannaturale non è altro da quello che ci resta sconosciuto (non rivelato)! Allora ho capito il terrore. Mi è sembrato di arrivare costantemente a scoprire un segreto dell’universo. Ho tentato di affinare i miei organi, di eccitarli, per far loro percepire, in certi momenti, l’invisibile. Mi sono detto, “tutto è un essere”. Il grido che passa nell’aria, è un essere simile alla bestie poiché esso nasce, produce un movimento e si trasforma ancora per morire. Così la mente timorosa che crede in essere incorporei non sbaglia. Chi sono? Quanti uomini li avvertono, fremono in loro presenza, tremano al loro impercettibile contatto. Li sentiamo vicino ed intorno a noi, ma non possiamo distinguerli perché non abbiamo gli occhi per vederli o piuttosto l’organo sconosciuto che potrebbe scoprirli. Allora, più di chiunque altro, io le sentivo queste presenze soprannaturali. Esseri o misteri? Come posso saperlo? Non posso dire che cosa sono, ma sempre segnalare la loro presenza. Ho visto – ho visto un essere invisibile – nella misura in cui si possono vedere questi esseri? Sono rimasto immobile per intere notti, seduto davanti al mio tavolo, con la testa fra le mani, pensando a questo, pensando a loro. Spesso ho creduto che una mano intangibile, o piuttosto un corpo inafferrabile stava sfiorando i miei capelli. Non mi ha toccato perché non era un’essenza carnale, ma un’essenza imponderabile e sconosciuta. Una sera ho sentito scricchiolare il parquet dietro di me. Ha scricchiolato in modo particolare. Ho tremato. Mi sono girato. Non ho visto niente. Non ci ho più pensato. Ma il giorno dopo, alla stessa ora, si è verificato lo stesso rumore. Ero così spaventato che mi sono alzato, sicuro, sicuro, sicuro che non ero da solo nella mia stanza. Non ho visto niente. L’aria era limpida, trasparente ovunque. Le mie due lampade illuminavano ogni angolo della stanza. Il rumore non riprese e mi calmai un po’ per volta; tuttavia rimasi piuttosto inquieto e mi guardai spesso intorno. Il giorno dopo mi risvegliai di buon ora, cercando di capire come sarei riuscito a vedere l’invisibile che mi visitava. E l’ho visto. Per poco non sono morto di terrore. Avevo acceso tutte le candele sulla mensola del camino e i candelieri. La stanza era illuminata a festa. Le mie due lampade bruciavano sul tavolo. Di fronte a me, il mio letto, un vecchio letto a colonne in legno di quercia. A destra il mio caminetto. A sinistra, la mia porta, che avevo chiuso col catenaccio. Dietro di me un grande armadio con specchio. Mi sono guardato in esso. Avevo occhi assenti e pupille dilatate. Allora mi sono seduto come tutti i giorni. Il rumore si era presentato la sera prima e la sera prima delle 21,22. Aspettavo. Quando il momento preciso è arrivato , ho percepito una sensazione indescrivibile, come se un liquido, un liquido irresistibile mi fosse penetrato in tutti i pori, sommergendo la mia anima con un terrore atroce. E lo scricchiolio divenne forte, dritto verso di me. Mi alzai e mi girai così rapidamente che quasi caddi. Vedevo ogni cosa come in pieno giorno e non mi vedevo nello specchio. Era vuoto, libero pieno di luce., Non ero dentro di lui, nonostante gli fossi davanti. Lo fissavo con sguardo atterrito. Non ho osato avvicinarmi ad esso perché sentivo che era fra noi, lui, l’invisibile, e che mi nascondeva. E’ stato terribile. Ed ecco che ho cominciato a percepirmi in una foschia in fondo allo specchio, in una foschia come attraverso uno specchio d’acqua e mi sembrava che questa acqua scivolasse lentamente da sinistra a destra rendendo a ogni secondo la mia immagine più precisa. Era come la fine di un’eclissi. Quello che mi nascondeva non aveva contorni, ma una sorta di trasparenza opaca che a poco a poco si schiariva. Alla fine ho potuto vedermi chiaramente, come faccio tutti i giorni quando guardo me stesso. L’avevo dunque visto. E non lo ho più rivisto. Lo attendo incessantemente e sento che la mia mente si sta smarrendo in questa attesa. Rimando per ore, notti, giorni, settimane, davanti al mio specchio, aspettandolo. Egli non tornerà mai più. Ha capito che io l’ho visto. Sento che lo aspetterò per sempre, fino alla morte, che lo attenderò incessantemente, davanti a questo specchio come un cacciatore in agguato. E, dentro questo specchio, comincio a vedere delle immagini folli, mostri, cadaveri orrendi, tutti i tipi di bestie feroci. Di esseri atroci, tutte le visioni inverosimili, che devono popolare la mente dei folli. Questa è la mia confessione, mio caro dottore. Ditemi che cosa devo fare?
17 Febbraio 1885
Testo pubblicato nel Gil Blas del 17 Febbraio 1885 con la firma Maufrigneuse