Frankenstein
Questo racconto terrificante è il primo e il più famoso lavoro pubblicato dalla scrittrice inglese Mary Shelley (1797-1851), moglie del poeta romantico Percy Bysshe Shelley (1792-1822). Nata da una sfida ad inventare un racconto horror e ispirata da un incubo, la storia della Shelley narra di un giovane studente idealista che crea un essere umano da corpi umani esanimi e vi infonde la forza della vita, salvo poi rendersi conto della natura grottesca della sua creatura e delle terribili conseguenze delle azioni di quest’ultima. Mary Shelley (nata Wollstonecraft) nacque a Londra il 30 agosto 1797 da genitori illustri. Il padre era il celebre filosofo e scrittore William Godwin (1756-1837) e la madre l’attivista per i diritti della donna Mary Wollstonecraft ( 1759-1797) autrice della Rivendicazione dei diritti delle donne (1792). Come lei stessa scrive nell’introduzione a Frankenstein, in Standard Novels Edition (1831), trascorse gran parte della sua infanzia in campagna, specialmente in Scozia, “a nord, sulle rive deserte e tristi del Tay, vicino a Dundee “. Qui passò molto del suo tempo scrivendo storie e, ancor più, fantasticando. A soli sedici anni, Mary incontrò e si innamorò di Percy Bysshe Shelley (1792-1822), poeta romantico inglese che, come molti giovani poeti del tempo, affascinato dalle idee di William Godwin, ne frequentava la casa. Si sposarono nel 1816, dopo la morte della prima moglie di Shelley, Harriet Westbrook. Benché giovani e innamorati, non andavano incontro ad un felice futuro. La loro vita matrimoniale fu breve e costellata da gravi lutti: solo uno dei loro quattro figli sopravvisse all’infanzia, e lo stesso Shelley morì annegato durante una tempesta nel 1822. Sebbene Mary fosse una donna appagata dalla vita familiare e dal lavoro letterario del marito, fu proprio quest’ultimo a insistere affinché la moglie coltivasse il proprio talento di scrittrice. Il suo romanzo Frankenstein apparve nel 1818. Dopo la prematura scomparsa del marito, Mary Shelley continuò la sua attività di scrittrice. Tra i suoi lavori più conosciuti ricordiamo i romanzi Valpurga (1823) e L’ultimo uomo (1826). Scrisse inoltre alcuni racconti di viaggio e delle note interessanti alla collezione di poesie del marito, Poetimi Works, pubblicata nel 1839. Mary Shelley mori a Londra nel 1851. È per il suo primo romanzo, Frankenstein, o Il moderno Il Prometeo (1818) che Mary Shelley è maggiormente conosciuta. Le circostanze che portarono alla stesura di questo libro sono ben documentate. Durante la piovosa estate del 1816, che gli Shelley passarono sul Lago di Ginevra, in compagnia del poeta Lord Byron (1788-1824), su suggerimento di quest’ultimo, che stava leggendo alcuni racconti tedeschi dell’orrore, l’intera compagnia decise di cimentarsi nella stesura di storie dell’orrore per vincere la malinconia dovuta al mal tempo. Dopo aver cercato invano un soggetto, improvvisamente, una notte, Mary fece un “sogno ad occhi aperti”. Nella storia che, grazie all’incoraggiamento del marito, si svilupperà in un romanzo pubblicato due anni dopo, Mary Shelley considera le origini della vita e le terribili conseguenze che si hanno quando l’uomo cerca di sostituirsi a Dio. Altri temi trattati nel romanzo sono la scienza moderna e l’influenza corruttrice della società. La storia dello studente, giovane e idealista, che crea un gigante da cadaveri umani, in cui instilla la forza della vita solo per realizzare in seguito la natura grottesca della sua creazione, ha avuto, sin dalla sua pubblicazione, un incredibile fascino.
Capitolo II (pubblicato interamente)
Nessun essere umano può aver passato un’infanzia più felice della mia. I miei genitori erano davvero pervasi da uno spirito di gentilezza e di indulgenza. Sentivamo che non erano tiranni che volevano guidare il nostro destino secondo i loro capricci, ma erano gli artefici e i creatori di tutti i piaceri di cui noi godevamo. Quando conoscevo altre famiglie, vedevo chiaramente com’era felice il mio destino, e la gratitudine accompagnava la crescita dell’amore filiale. Il mio temperamento era a volte violento, e le mie passioni impetuose, ma per una qualche legge del mio carattere essi non erano rivolti verso occupazioni infantili ma a un desiderio ardente di imparare, e non di imparare ogni cosa indiscriminatamente. Confesso che né le strutture del linguaggio, né i codici del governo, né la politica dei vari stati avevano per me una qualche attrattiva. Erano i segreti del cielo e della terra che desideravo apprendere; e sia che mi interessassi della sostanza esteriore delle cose o dello spirito interno della natura o dell’anima misteriosa dell’uomo, le mie ricerche erano sempre rivolte alla metafisica o, nel suo senso più elevato, ai segreti del mondo fisico. Nel frattempo Clerval si occupava, per così dire, delle relazioni monili delle cose. Il vivace palcoscenico della vita, le virtù degli eroi, e le azioni degli uomini erano il suo tema; e la sua speranza e il suo sogno era di diventare uno il cui nome venisse ricordato dalla storia come quello dei valorosi e avventurosi benefattori della nostra razza. L’anima pia di Elisabeth brillava nella nostra casa piena di pace come una lampada in un tempio. La sua tenerezza era la nostra; il suo sorriso, la sua voce gentile, lo sguardo dolce dei suoi occhi celestiali erano sempre lì, a benedirci e ad animarci. Era lo spirito vivente dell’amore che mitigava e attraeva; avrei potuto diventare scontroso per i miei studi, brusco per l’ardore della mia natura, ma lei era lì per trasformarmi in una immagine della sua stessa gentilezza. E Clerval, avrebbe potuto entrare il male nel nobile spirito di Clerval? Tuttavia non sarebbe stato così perfettamente umano, così premuroso nella sua generosità, così pieno di gentilezza e tenerezza in mezzo alla sua passione per le imprese avventurose, se lei non gli avesse rivelato la reale bellezza della bontà e fatto dell’agir bene il fine e lo scopo della sua sconfinata ambizione. Provo un piacere squisito nell’indugiare nei ricordi della mia infanzia, prima che la sventura contaminasse la mia mente e cambiasse le sue luminose visioni di utilità universale in riflessioni malinconiche e meschine su se stessa. Inoltre, nel dipingere il quadro dei miei primi giorni, ricordo anche quegli eventi che, a impercettibili passi, mi condussero alla mia successiva storia di miseria, poiché quando voglio spiegarmi la nascita di quella passione che in seguito governò il mio destino, scopro che essa ha origine, come un fiume di montagna, da sorgenti misere quasi dimenticate; ma, gonfiandosi mentre procede, diventa un torrente che, lungo il suo corso, ha spazzati) via tutte le mie speranze e le mie gioie. La filosofia naturale è il genio che ha regolato il mio destino; desidero dunque, in questa narrazione, esporre quei fatti che mi condussero a prediligere questa scienza. Quando avevo tredici anni andammo tutti in gita di piacere ai bagni vicino Thonon; il tempo inclemente ci costrinse a restare confinati una giornata nella locanda. In questa casa mi capitò di trovare un volume dei lavori di Cornelio Agrippa. Lo aprii con apatia; la teoria che egli cercava di dimostrare e i fatti straordinari che raccontava mutarono subito il mio sentimento in entusiasmo. Una nuova luce sembrò farsi strada nella mia mente, e, saltando di gioia, comunicai la mia scoperta a mio padre. Mio padre guardò senza grande attenzione l’intestazione del mio libro e disse «Ah! Cornelio Agrippa! Mio caro Victor, non perdere il tuo tempo con questo, sono solo sciocchezze.» Se invece di questa osservazione mio padre si fosse preso la briga di spiegarmi che i principi di Agrippa erano stati completamente screditati e che era stato introdotto un sistema scientifico moderno che possedeva potenzialità ben più grandi dell’antico, poiché le potenzialità di quest’ultimo erano chimeriche, mentre quelle del primo erano reali e concrete! Se ciò fosse avvenuto avrei sicuramente gettato da parte Agrippa e avrei accontentato la mia immaginazione, viva com’era, tornando con maggior ardore ai miei precedenti studi. È anche possibile che la serie delle mie idee non ricevesse l’impulso fatale che mi condusse alla rovina. Ma la rapida occhiata che mio padre diede al volume, mi convinse che non ne conoscesse allatto il contenuto, e io continuai a leggerlo con la più grande avidità. Quando tornai a casa la mia prima preoccupazione fu di procurarmi tutte le opere di questo autore, e in seguito quelle di Paracelso e di Alberto Magno. Ho letto e studiato le folli fantasie di questi scrittori con piacere; mi sembravano tesori conosciuti da pochi, oltre a me. Mi sono descritto come una persona che è sempre stata impregnata dal fervente desiderio di penetrare i segreti della natura. Nonostante il lavoro intenso e le straordinarie scoperte dei filosofi moderni, ero sempre scontento e insoddisfatto dei miei studi. Si dice che Sir Isaac Newton abbia confessato che si sentiva come un bambino che raccoglieva conchiglie a fianco del grande e inesplorato oceano della verità. Quei suoi successori in ogni ramo della filosofia naturale, che io conoscevo, apparivano, persino alla mia intelligenza di ragazzo, come dei principianti impegnati per lo stesso fine. Il contadino ignorante osservava gli elementi attorno a sé e ne comprendeva gli usi pratici. Il filosofo più sapiente conosceva poco di più. Egli aveva parzialmente svelato il volto della Natura, ma i suoi lineamenti immortali restavano una meraviglia e un mistero. Poteva sezionare, anatomizzare, attribuire nomi, ma non poteva parlare di cause finali, le cause di secondo e terzo grado gli erano completamente sconosciute. Avevo fissato lo sguardo sulle fortificazioni e sugli ostacoli che sembravano impedire agli esseri umani di entrare nella cittadella della natura, e subito, da sciocco, me n’ero lamentato. Ma c’erano libri, e c’erano uomini che erano penetrati più in profondità e conoscevano di più. Presi per vero tutto ciò che asserivano, e divenni loro discepolo. Può sembrare strano che questo avvenisse nel diciottesimo secolo, ma mentre seguivo la normale educazione nelle scuole di Ginevra, ero, in gran parte, autodidatta per quel che riguarda i miei studi prediletti. Mio padre non era uno scienziato, ed io fui lasciato a lottare con la cecità di un bambino e con la sete di conoscenza di uno studente. Sotto la guida dei miei nuovi precettori entrai con la massima diligenza nella ricerca della pietra filosofale e dell’elisir di lunga vita; ma quest’ultimo catturò ben presto tutta la mia attenzione. La ricchezza era un obiettivo minore, ma quale gloria avrebbe accompagnato la scoperta se fossi riuscito a bandire la malattia dal genere umano e a rendere l’uomo invulnerabile a tutto, eccetto che a una morte violenta! Né queste erano le mie sole fantasie. L’evocazione di demoni e fantasmi era una promessa liberamente accordata dai miei autori preferiti, la cui realizzazione io cercavo con grande desiderio; e se i miei incantesimi non avevano mai successo, io attribuivo il fallimento alla mia inesperienza e ai miei errori piuttosto che a una mancanza di capacità e di precisione dei miei maestri. E così per un po’ di tempo mi occupai di sistemi screditati, mischiando, come un incompetente, un migliaio di teorie contraddittorie e dimenandomi disperatamente in un vero pantano di svariate conoscenze, guidato da un’ardente immaginazione e da ragionamenti infantili, finché un incidente muto nuovamente la corrente delle mie idee. Quando avevo circa quindici anni ci eravamo ritirati nella nostra casa vicino Belrive, dove assistemmo a un violentissimo e terribile temporale. Proveniva da dietro le montagne dello Giura,’e il tuono scoppiò subito con uno spaventoso fragore da varie parti del cielo. Finché durò il temporale, io rimasi a guardarlo con curiosità e piacere. Mentre stavo sulla porta, vidi all’improvviso una corrente di fuoco fuoriuscire da una vecchia e bellissima quercia che si trovava a circa venti iarde da casa nostra e, non appena la luce abbagliante svanì, la quercia era sparita, rimaneva solo un troncone secco. Quando il giorno dopo andammo a vedere, trovammo l’albero distrutto in modo singolare. Non era stato fatto a pezzi dal colpo, ma era interamente ridotto in pezzi di legno. Non avevo mai visto niente così completamente distrutto. Prima di questo fatto io non ero all’oscuro delle più ovvie leggi dell’elettricità. In questa occasione era con noi un uomo di grandi studi in filosofia naturale che, eccitato da questa catastrofe, si addentrò nella spiegazione di una teoria sull’elettricità e sul galvanismo, che era per me nuova e sorprendente. Tutto ciò che disse gettò nell’ombra Cornelio Agrippa, Alberto Magno e Paracelso, i signori della mia immaginazione; ma per qualche fatalità la caduta di questi uomini mi distolse dal proseguire i miei soliti studi. Mi sembrò come se niente potesse essere conosciuto. Tutto ciò che, per così tanto tempo, aveva impegnato la mia attenzione all’improvviso divenne meschino. Per uno di quei capricci della mente a cui siamo forse più soggetti in gioventù, abbandonai subito le mie precedenti occupazioni, considerando la storia naturale e tutta la sua progenie una creazione vana e deforme, e nutrii il più grande disprezzo per una presunta scienza che non avrebbe mai oltrepassato la soglia del vero sapere. Con questa disposizione mentale mi dedicai alla matematica e alle branche di questa scienza, perché erano costruite su solide fondamenta, e dunque degne della mia considerazione. Come sono strane le nostre anime, e da che legami sottili siamo legati alla prosperità o alla rovina. Quando guardo indietro, mi sembra che questo mio quasi miracoloso mutamento di inclinazione e di volontà fosse l’immediato consiglio del mio angelo custode, l’ultimo sforzo fatto dallo spirito di conservazione per evitare la tempesta che già allora aleggiava su di me, pronta ad avvolgermi. La sua vittoria fu annunciata da una tranquillità inconsueta e da una felicità dell’anima che seguì l’abbandono dei miei vecchi e ultimamente tormentati studi. Fu così che mi fu insegnato ad associare il male con la loro continuazione e la felicità con il loro disprezzo. Fu un grosso sforzo per lo spirito del bene, ma fu inutile. Il destino era troppo potente, e le sue leggi immutabili avevano decretato la mia assoluta e terribile distruzione.