I tre pezzi di seguito sono stati pubblicati questa mattina in forma di post sulla pagina facebook della presente testata online. Ho pensato di raggrupparli in un articolo consultabile in un contesto più adatto a scritture più lunghe di quelle consuete di un social network.

Il bello

Occuparsi della bellezza, nella forma dell’obiettivo di una macchina fotografica, in quanto strumento di cattura di eventi o istanti interessanti, oppure nella forma della descrizione o “critica” di un oggetto bello, o ancora nelle vesti della pittura, della musica o della poesia (termine che poi raccoglie tutto il discorso) implica un dovere inevitabile: distogliere gli occhi da se stessi; soprattutto se poi ci riteniamo inferiori alla perfezione che ci sta dinnanzi, “brutti”. In un’intervista Carmelo Bene, ripreso mentre segnava le coste di una Venezia imprecisata, forse anni settanta, solitario e byronianamente maledetto, diceva proprio questo. Bisogna dimenticarsi di sé nella creazione e nel mantenimento di quest ultima. Nella composizione, in quel processo lungo che porta ad un compimento, che è la fine dell’artista, l’arte. Questo vale anche quando si giudica un libro o una teoria scientifica, è ovvio. Ma essendo la bellezza nella sua armonia interessante contraria alla natura dell’uomo, finita ed imperfetta, indegna, l’artista allora bello o brutto, morale o immorale, preciso o vago, deve consegnarsi nelle mani di Dioniso e vedere soltanto oggetti senza soggetti, in una parola, morire.

L’amore

Le emozioni non sono bambine e perciò risibili, o peggio, inutili. L’uomo adulto è un contenitore di pensieri, percezioni, ricordi, principi, idee, convinzioni; essendo queste spesse in atto, tralasciando inascoltate le percezioni più profonde, che seminiamo nell’Es, ma un tipo di inconscio più sociale e banale, quella doppia fodera in cui mettiamo in manette le voci del cuore, noi poveri borghesi. Ed è proprio perché queste percezioni profonde ed autentiche vengono quasi sempre sedate che invece devono essere ascoltate e portate a termine nelle loro ricchissime e stupende possibilità. Non bisogna affatto vergognarsi (la vergogna è conseguente ad una colpa o peccato, e questo è sua volta un venire meno ad una regola, ma la regola interna della persona prevede “automaticamente” provare emozioni, così come respirare o per altre funzioni “essenziali” della persona) di essere emotivi e di buttarsi a pie pari se vediamo una che ci piace (o uno) oppure se rompiamo le regole discorsivo-comportamentali e diciamo cose senza senso (Freud appunto relega ad una fase infantile la distruzione dell’ordine del linguaggio e i singulti senza senso, pari a i versi degli animali) se insomma ci manifestiamo per quello che siamo. La società borghese (o moderna) è caratteristica per la sua insignificanza sentimentale di fondo, basta avvicinarsi ad una porta di un treno per capire quanto poco importi prendere a gomitate un altro per salire e andare a casa o lavoro, la fine della retta del “senso”. La doppia coscienza dell’uomo sociale è vile ancora più vergognosa di quell’infantilità che tanto offendiamo e deridiamo. Ma l’infantilità non è semplicemente Einstein che va girando sopra la bici e fa la linguaccia oppure alcuni squallidi accademici che girano per le loro università malvagie con degli enormi palloni per vedere la reazione dei loro altrettanti glabbri studenti. L’infantilità non è infantilità, è essere umani, come siamo e come non cambiamo. Siamo immutevoli, l’essenza non cambia affatto nel tempo.

Il destino

Spesso non bastano le aderenze puramente superficiali, risultato di un ragionamento geometrico volto a stabilire per definizione, in maniera puramente metafisica chi è giusto chi no. Quanti matrimoni nella storia del mondo si sono basati ed ancora avanti negli anni si baseranno sulle sostanze materiali, il denaro prima di tutto ma non solo, anche gli oggetti che contornano una vita agiata, sicura, ferma, solida, moderna. Si parla di matrimonio, ma non solo, essendo esso il sigillo ancora una volta borghese ai sentimenti infantili e veri; il matrimonio (c’è chi per forza vuole sposarsi anche se poi non lo vuole affatto, perché così stava scritto nel sussidiario e perché è bello il corredo, la festa e gli auguri materiali dei parenti, che poi tra l’altro gli auguri te li fanno soltanto se hai offerto loro un buon desinare) rappresenta un po’ una summa della storia del cuore fino a quel momento, però in concomitanza attiva con un organo a lui ostile, la ragione. Non la ragione naturale, che perisce dinnanzi agli argomenti riguardanti temi scottanti della modernità (affitto, spesa, salario, vestiario, guardaroba, casa pulita) e che anzi è complice come un doganiere inesperto alle pretese del sentimento. La ragione borghese, calcolatrice e meschina, blocca il flusso genetico delle emozioni, e stabilisce d’ora in avanti, cosa è giusto fare. Perché di giustizia si parla, giustizia sociale. Matrimoni di interesse, la lista sarebbe infinita! Ma qui non si fa un discorso di diritto sociale, riguardante la bontà o meno del matrimonio comparato ad esempio alla convivenza, qui si parla esclusivamente di nudità. Cosa c’entra la nudità? C’entra e come. Adamo e Eva nemmeno raggiungono quell’ideale che sto spiegando, perché facevano il volere di un capo superiore, non erano sinceri, quantomeno nudi per davvero. L’essere senza vestiti è essere fuori dai calcoli della ragione borghese, sarebbe essere fuori dal mondo, anzi lo è, ma nessuno ha il coraggio di vivere senza essere inseriti nell’organismo unico dell’industria del lavoro e del salario. Non certo sto facendo un’apologia della vita selvaggia o (spesso purtroppo sinonimo) irresponsabile, dico soltanto che il vero amore non si basa su un’etichetta, dei calzoni firmati così come sotto la scritta “gente per bene”. Prima di decidere pensate che siete liberi.

Queste scritture sono di Giovanni Sacchitelli (Foggia, 1988), un editor della rivista online (nonché della sua speculare pagina facebook) Colori vivaci Magazine.

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