Il compito del traduttore (1920) di Walter Benjamin

Il riguardo per il fruitore non si dimostra mai fruttuoso alla comprensione di un’opera o di una forma d’arte. Non solo nel senso che il riferimento a un determinato pubblico o a suoi rappresentanti porta fuori strada, ma addirittura nel senso che il concetto di fruitore “ideale” è dannoso per ogni dibattito sulla teoria dell’arte, che è tenuto a presupporre semplicemente l’essenza e l’esistenza dell’uomo in generale. L’arte stessa si limita a presupporne solo l’essenza corporea e spirituale – ma l’attenzione mai, in nessuna delle sue opere. Infatti, nessuna poesia è per il lettore, nessun quadro per l’osservatore, nessuna sinfonia per l’ascoltatore. 8 E la traduzione sarebbe per lettori che non capiscono l’originale? Sembrerebbe che ciò basti a spiegare la differenza principale fra l’uno e l’altra in campo artistico. Inoltre, sembra questa l’unica ragione possibile per dire ripetutamente “la stessa cosa”. Ma cosa “dice” una poesia? Cosa comunica? Molto poco a chi la capisce. Essenzialmente la poesia non è comunicazione, non è enunciato. Pertanto la traduzione che pretendesse comunicare non comunicherebbe altro che la comunicazione, cioè l’inessenziale. È questo, infatti, il segno di riconoscimento delle cattive traduzioni. Ma ciò che in poesia esce dalla comunicazione – e anche il cattivo traduttore ammette che ciò sia l’essenziale – non è in generale considerato come inafferrabile, misterioso, “poetico”? Che il traduttore può restituire solo se si mette a poetare a sua volta. Da qui deriva, in effetti, il secondo contrassegno della cattiva traduzione, definibile come trasmissione inesatta di un contenuto inessenziale. E non se ne esce finché la traduzione si fa carico di servire al lettore. Se la traduzione fosse destinata al lettore, dovrebbe esserlo anche l’originale. Ma se l’originale non consiste in questo, come si può intendere la traduzione riferendola a ciò? La traduzione è forma [letteraria]. Concepirla come tale significa tornare all’originale, perché lì, come intraducibilità, è rinchiusa la sua legge. La questione della traducibilità di un’opera ha due sensi. Può significare che l’opera troverebbe il traduttore sufficiente nel complesso dei suoi lettori o, meglio, che per essenza propria l’opera ammetta, quindi pretenda, la traduzione conforme al significato di questa forma. Fondamentalmente la prima questione è problematica da decidere, mentre la seconda è apodittica. Solo un pensiero superficiale, negando il senso autonomo della seconda, può dichiarare le due questioni equivalenti. Per contro, va segnalato che certi concetti relazionali conservano il loro senso, forse il loro senso migliore, non riferendoli a priori esclusivamente all’uomo. Così si potrebbe parlare di una vita o di un attimo indimenticabili, anche se tutti gli uomini li avessero dimenticati. Infatti, se la loro essenza esigesse di non dimenticarli, quel predicato non diventerebbe falso. Sarebbe solo un’esigenza a cui gli 9 uomini non corrispondono. Al tempo stesso conterrebbe il rinvio a un dominio dove corrispondenza, invece, ci sarebbe – al pensiero di Dio. Al tempo stesso rimarrebbe da prendere in considerazione la traducibilità di forme linguistiche anche nel caso in cui fossero umanamente intraducibili. E non lo sarebbero di fatto, almeno in certa misura, secondo un concetto rigoroso di traduzione? Con questa mossa liberatoria va posta la questione se la traduzione di certe formazioni linguistiche sia esigibile. Infatti, vale il teorema: se la traduzione è una forma, a certe opere la traducibilità deve inerire in modo essenziale. La traducibilità inerisce essenzialmente a certe opere. Ciò non significa che la loro traduzione sia essenziale per se stesse, ma che nella loro traducibilità si estrinseca un determinato significato, inerente agli originali. È evidente che, per quanto buona sia, la traduzione non può mai significare qualcosa per l’originale. E tuttavia essa è in intimo rapporto con l’originale in forza della sua traducibilità, addirittura in rapporto tanto più intimo quanto meno significa per l’originale. Potrebbe essere definito come un rapporto naturale o, meglio, un rapporto di vita. Come le manifestazioni vitali sono intimamente connesse con il vivente, pur senza significare niente per lui, così la traduzione procede dall’originale, non dalla sua vita ma dalla sua “sopravvivenza” [Überleben]. Tant’è vero che la traduzione è più tarda dell’originale e nelle opere importanti, che non trovano il loro traduttore d’elezione al tempo in cui sorgono, segnala lo stadio della loro permanenza in vita [Fortleben]. L’idea di vita e di sopravvivenza dell’opera d’arte va intesa non in senso metaforico ma del tutto concreto. All’impossibilità di attribuire la vita esclusivamente alla corporeità organica ci era già arrivato il pensiero dei tempi più oscurantisti. Ma non si tratterebbe di estendere la vita sotto il lo scettro debole dell’anima, come ha tentato Fechner. Per tacere della possibilità di definire la vita sulla base degli ancor meno decisivi fattori animali, per esempio la sensazione, che la può caratterizzare solo occasionalmente. Si rende giustizia al concetto di vita solo riconoscendola a tutto ciò che ha una storia, che non è 10 solo il suo scenario. Infatti, l’ambito della vita è ultimamente determinabile in base alla storia, non in base alla natura – per non dire della natura sfuggente della sensazione e dell’anima. Da qui deriva per il filosofo il compito di comprendere ogni vita naturale a partire dalla vita più ampia della storia. E non è almeno la sopravvivenza delle opere incomparabilmente più facile da riconoscere di quella delle creature? La storia delle grandi opere d’arte ne riconosce la discendenza dalle fonti, la formazione all’epoca dell’artista e il tempo – fondamentalmente eterno – della sopravvivenza presso le successive generazioni. Si chiama fama la sopravvivenza che viene alla luce. Traduzioni che siano più di semplici trasmissioni, emergono quando l’opera che sopravvive raggiunge la fama. Alla quale non servono le traduzioni, come sono soliti dire i cattivi traduttori, ma al contrario le cattive traduzione devono a lei la loro esistenza. In esse la vita dell’originale ultimamente e più estesamente si dispiega in forma sempre rinnovata. Come quello di una vita specifica ed elevata, anche questo dispiegamento è determinato da una finalità altrettanto specifica ed elevata. Vita e finalità: il loro rapporto, apparentemente a portata di mano, ma da sempre sottratto alla cognizione, si dischiude solo là dove il fine, a cui collaborano tutte le singole finalità della vita, venga a sua volta ricercato non nella sfera della vita ma in una superiore. Tutte le manifestazioni finalistiche della vita, come la finalità in generale, non sono in ultima analisi finalizzate alla vita ma a esprimere la sua essenza. Ne rappresentano [darstellen] il significato. Così in definitiva la traduzione tende a esprimere il rapporto più intimo tra le lingue, che resta tuttavia segreto. La traduzione non può né rivelarlo né istituirlo ma può solo rappresentarlo, realizzandolo in forma germinale o intensiva [intensiv]. In verità, tentando di istituirlo in forma germinale, la rappresentazione di un significato è un modo specifico di rappresentazione, che non si riscontra nella vita non linguistica. La quale nelle analogie e nei segni possiede altre forme di riferimento, diverse dalla realizzazione intensiva, anticipatoria e allusiva. L’accennato intimo rapporto tra lingue è la specifica convergenza per cui le lingue non sono reciprocamente estranee 11 ma, a priori e a prescindere dai loro rapporti storici, sono affini in ciò che vogliono dire. Con questo tentativo di spiegazione sembra che dopo vani rigiri la trattazione sbocchi comunque di nuovo nella tradizionale teoria della traduzione. Se le traduzioni devono preservare la parentela delle lingue, come potrebbero se non trasmettendo nel modo più esatto possibile la forma e il senso dell’originale? Chiaramente sul concetto di esattezza la teoria tradizionale non avrebbe molto da dire, e in ultima analisi non saprebbe render conto di ciò che è essenziale nelle traduzioni. […]

Testo completo su http://www.pansofia.it/files/2014/12/06/467-Il_compito_del_traduttore_Benjamin.pdf

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*
*