ELEMENTARE!
a Irene, con affetto
É la prima volta che preparo il tuo zaino, la prima che sto dall’altra parte a decidere cosa mangerai a merenda e non lo so. Sinceramente se metter dentro anche il quadernone a righi oppure no. Tu intanto dormi. E non sai ancora scrivere. Scrivere.
Il mio primo giorno di scuola non me lo ricordo, mi ricordo solo l’ultimo. Anna devo averla conosciuta sin da subito, è stata la mia compagna di banco, la mia amica del cuore che incidevo in grassetto laddove abita la verità: sulle porte dei bagni e nelle cornicette dei quaderni. Quelle coi cuoricini, coi fiori colorati: Cristina e Anna amiche per sempre. I suoi colori mi sembravano sempre più accesi dei miei, e forse lo erano davvero. Disegnava, decorava, riempiva gli spazi e riusciva ad abbellire tutto molto, molto meglio di me; faceva la casette in prospettiva e io sbirciavo e ogni tanto rubavo qualche idea. Si migliora anche sbirciando figlio mio. Nel meglio che c’è. Negli altri.
La radio sveglia inizia a cantare “Il mondo”. Gira il mondo gira nello spazio senza fine con gli amori appena nati con gli amori già finiti nella gioia e nel dolore della gente come me. Il mondo.
Quando avevo la tua età tutte le sigle dei cartoni animati le cantava una certa Cristina, cosicché ogni volta che mi presentavo i miei compagni in coro: D’Avena? No, Carlà! Come Raffaella? Quasi! La mattina passavamo a prendere Pietro: capi-te-posparu per mio padre -e dai Pietro sbrigati che è tardi! -Ah, ora è colpa mia! Ma perché non sei passata prima? Sta storia del ritardo, delle cose dell’ultimo minuto devo averla sviluppata piano piano in quegli anni per poi elaborarla con cura direi certosina fino ad oggi e sicuramente anche domani. E dopo domani. Eredita da quel tipo coi baffi che ci aspettava nella 112 col motore acceso. Non so perché ma all’ora esatta lui ha sempre preferito il su per giù.
Arrivavamo puntualmente per ultimi e chiudevamo la porta dell’aula mentre la maestra chiamava Carlà! E io gridavo Presente! Per cui niente, nella prossima vita voglio chiamarmi Zxxaxax così almeno avrò tutto il tempo per chiudere la porta, togliere il cappotto, sistemare lo zaino e sedermi al primo banco. Forse.
Proprio al primo banco una volta successe una cosa raccapricciante. Ma raccapricciante veramente. Gabriele quello alto e grosso e Gabriele quello piccolo e magro per gli amici Stanlio e Ollio, stavano scrivendo beatamente sui loro quaderni mentre anche noi. Tutti. D’altronde. Cercavamo di star dietro al dettato con una di quelle penne sottili gialle e nere con la punta allungata. Non so se hai presente. Insomma, all’improvviso gomitate silenziose, accartocciamenti di fogli, stridii di sedie e poi zac. Ollio si gira con una penna sottile gialla e nera conficcata esattamente nel centro della fronte. Penzolante. Stanlio lo guarda, perfido e soddisfatto come nella parodia di un film horror, immobile. Però ho detto parodia; e infatti Ollio non muore, anzi dopo tre secondi in cui non sappiamo se respirare oppure no, scoppia in una risatona libera-tutti. Tutti tranne la maestra, che nel frattempo aveva avuto un attacco cardiaco con doppio salto mortale e avvitamento finale. La maestra Laura era di una dolcezza infinita e spudorata, di quella dolcezza che vorresti tenere appesa ad una catenina a mo’ di ciondolo portafortuna. Sotto la giacca, sotto il maglioncino, sotto la maglia interna, sotto sotto, per farti proteggere meglio.
Per la legge del contrappasso, in quarta elementare ci arrivò in regalo la signorina Rachele, direttamente dal reparto ufficiali della gendarmeria tedesca. Appena entrava in aula noi dovevamo alzarci e aspettare in piedi il suo Buongiorno. Quando poi si sentiva pronta, con calma. Molta calma. Ho detto calma. Molta Calma. La signorina esclamava: -Buongiorno! e poi con voce ferma gridava: RIIII- POSO! A quel comando bisognava portar dietro la gamba sinistra e afferrare contemporaneamente il polso destro. Così. Tenevamo le braccia dietro la schiena e restavamo immobili fino a quando lei di nuovo faceva: AAAAA-TTENTI! E lì a unire le scarpette da ginnastica numero 35, con le braccia dritte lungo la schiena. Mi ricordo che a volte stringevo i pugni. Che mi capitava di girarmi a guardare le nuvole di zucchero filato che erano fuori dalla finestra. E non capire. Il perché di quell’addestramento da soldatini col grembiule blu e il colletto bianco. In nome del padre del figlio e dello spirito santo. Seduti. Si comincia. Ci misi un po’ di tempo per capire ‘sto funzionamento. Il perché di questo gioco.
I grembiuli non mi sono mai piaciuti, li trovo ipocriti. E tu non ci credere figlio mio quando ti diranno che con quelli addosso sarete tutti uguali, che così non ci saranno distinzioni di ceto, di immagine. Nessun uomo è uguale ad un altro, l’uguaglianza non esiste e per fortuna. Ci annoieremmo così tanto, ti immagini? se il mondo fosse fatto da gente uguale a noi, che pensa esattamente, sa, mangia, gioca proprio come e quanto sappiamo fare noi.
Dai mamma sbrigati che ora suona la campanella. Sono pronta, se vuoi scendiamo. Non dimenticarti lo zaino. Quando passiamo di fronte a casa dei nonni la porta di ingresso si apre da sola come se qualcuno stesse appollaiato dietro l’uscio da almeno mezz’ora. Mio padre ti chiama. E tu ti avvicini gridando sto andando a scuola. Perché ti sentano tutti. E lui ti prende il visino tra la mani e ti bacia sulle guance. Fai il bravo. E buona fortuna. Ci vediamo dopo nonno.
In quarta arrivò anche Jessica, direttamente dalla provincia di Biella, con la pelle bianchissima di quelli del nord, l’accento sofisticato e le –e- chiuse. Molto bella, molto simpatica, molto tutto. Mi ricordo che un giorno arrivai a scuola ma Anna non era seduta al suo posto. Si è ammalata forse, pensai. E mi sedetti allora, al banco che era nostro solo nostro da quattro anni. Cristina e Anna amiche per sempre. E poi sentii la sua voce venire dall’ultima fila e ridere di gusto come sapeva fare solo lei. Aveva scelto quell’altra ma non c’era nessun perché quando gli chiesi. Scrollò le spalle e disse: è che mi sono stancata! Di essere tua amica. Così disse: mi sono stancata. E così sperimentai l’abbandono. Per la prima volta. Dietro a un banco della scuola elementare.
La sua sedia vuota la riempì Francesco, che aveva un debole per me e diceva in giro che ero la sua fidanzata, ma io ti giuro non me ne ero mai accorta. Perché in verità a me piaceva Andrea che però era innamorato perso di Jessica, ovviamente. Andrea aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri. Come mio padre. Mio padre. Era uno di quei simpaticoni che ti tirano i calci sotto allo zaino quando sei in fila indiana tanto per farlo rimbalzare un po’. Una volta ficcò l’occhio sinistro in una fessura della porta d’ingresso mentre io ero dall’altra parte. E così ci ritrovammo con un occhio di fronte all’altro. Sbarrato. Un senso di nausea, un fastidio sentii, come una specie di vertigine di cui non si vedeva il fondo. E giravo e giravo e mi veniva da vomitare. Sprofondando negli occhi di Andrea. Decisi quel giorno che gli occhi azzurri mi sarebbero piaciuti solo da lontano. E così mi ritrassi per sempre. Dagli occhi azzurri di Andrea. E da quelli di mio padre.
-Siamo arrivati! Se vuoi ti prendo lo zaino.
-No, lo porto io mamma!
-Ok.
La scuola da fuori sembra una bomba ad orologeria. I bambini scappano, si salutano, piangono, ridono, si mettono in posa per le foto. Ve ne sono alcuni che si tengono stretti alla gamba della mamma. E non vogliono andare. Da soli. Tra le mamme c’è Daniela, Eleonora ed anche Jessica, quella che mi portò via l’amica del cuore e l’innamorato. Nel cortile della scuola hanno preparato delle panche su cui sedersi. Son destinate ai bambini ma mi ci siedo anch’io: per una volta nella vita magari riesco ad assaporare il gusto a me proibito dell’attesa. Dell’appello.
C’è stato un tempo in cui aspettavo la campanella d’uscita così che tutti andassero via. Io e Daniela rimanevamo un po’ con sua nonna Consiglia, che faceva la bidella. Il suo ufficio-sgabuzzino era nel sottoscala, insieme alla macchina del caffè e alla fotocopiatrice. A me piaceva un sacco stare in quel posto in cui potevi trovare di tutto, dalle forbicine con la punta arrotondata al secchio per lavare a terra, alla colla vinilica, alle tazzine sporche di caffè col bordo sbavato di rossetto, ai disegni accartocciati, ai messaggi salva-universo annotati con la matita accanto al telefono. La Edmondo De Amicis era fatta di pareti gialle e blu, si arrendeva ogni giorno al frastuono e poi improvvisamente risuscitava nel silenzio, si sgranchiva con le chewing gum fresche appiccicate sotto le sedie vuote. Alcune volte abbandonavo Daniela di nascosto e facevo il giro delle aule, spiavo nei cassetti delle cattedre, mi sedevo all’ultimo banco e guardavo in silenzio la lavagna. E poi prima di andare via ci scrivevo sopra una lettera, un numero, un punto. Solo per dire che ero stata lì. E sapevo. Del quaderno dimenticato sotto il banco, della penna rossa col tappo mangiucchiato, dei cuori incisi sulla spalliera della sedia.
Shhh, inziamo l’appello! La maggior parte delle volte io ero la prima della lista perché il mio cognome inizia con la –c- e quando ci penso boom, sento il tuo nome pronunciato male e tocca a te. Mi guardi ma si, tocca a te. E ti guardo alzarti con lo zaino sulle spalle e andare da solo verso quello che ancora non sai. E non hai paura. Di guardarmi sorridere dall’ingresso di una scuola. Accanto a te c’è un bambino che piange e si copre la faccia, allunga il braccio verso sua madre e quella lo guarda. Con occhi fermi e secchi. Con l’indice destro gli fa segno di no. Lei non può andare. O forse lui non deve piangere. Da questa parte la scuola è uno schermo piatto con cui fare video. È una foto. Un continuo bla bla bla che non riesco a seguire. Io non riesco. Quando è il turno di Vergori so che la campanella è vicina, mi guardi, sorridi, e chissà cosa senti. Davvero.
Ho imparato a memoria le province italiane, le regioni, i laghi, i fiumi, gli oceani, il numero di abitanti della città di Firenze, l’altezza del Monte Bianco. Conosco a memoria le catene montuose dell’Africa e so che nelle regioni del nord è molto diffusa la coltivazione della barbabietola da zucchero. Mitica barbabietola da zucchero! Le guerre puniche, la rivoluzione francese, Giolitti e il ’68. Addiziona, sottrai, dividi per due. Quattro, cinque, sei. Metti la virgola qui, mezzo punto per un accento, il punto esclamativo no!
È tutto un gioco figlio mio. Un gioco. Ti auguro di imparare alle perfezione tutte le regole che ti presenteranno. Di farle tue. Di venerarle come delle divinità. E poi di buttare tutto a terra come se niente fosse. Di giocare coi punti e virgola. Di disegnare la coda di un pavone solo con la parola m-e-r-a-v-i-g-l-i-a. Vedere cosa succede quando inverti il senso e vai a capo. Di inventare espressioni nuove, tue e grammaticalmente scorrette. Provare a isolare tra due punti e in un intero rigo una sola parola.
Così.
Sussurrare al mondo che 1+1 dovrebbe fare almeno 3. E che 2+1 invece farà sempre e soltanto 2+1.
Dalle lingue che non ancora non sai vorrei che imparassi la relatività. Dei generi delle parole, dei colori, dei versi degli animali, dell’abbinamento delle pietanze. Accetta e rispetta perché nessun senso è universale. Questo è quanto.
Dalla storia un giorno imparerai che tutti sanno mentire, prima di tutto i libri. Che qualcuno li ha scelti per te perché voleva che sapessi solo una parte ritoccata di quella che è. In realtà. La verità.
Le tue mappe vorrei fossero piene di profumi. E foto da mostrare. E aneddoti da raccontare. E danze da ballare. Ballare. Ti auguro la curiosità, il gusto di conoscere cosa c’è dietro l’angolo dei tuoi occhi. Di sperimentare la voracità di sapere, lo sforzo di convivere, il piacere di sapersi diversi.
Ti auguro di dubitare di ogni religione, ti fidarti solo di quello che senti. Tu. Dei tuoi desideri, del senso di mancanza. Della parola religiosità. Del silenzio.
La campanella è appena suonata. La maestra vi dice qualcosa, tu allora alzi la mano, sorridi e mi saluti.
Ti giri di spalle.
E vai.
Cristina Carlà
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