NOTE INTRODUTTIVE ALL’ALBUM RACCOLTA

“DI TANTO AMORE”

(Ivano – Ottobre 2009)

Non mi è mai piaciuta troppo la definizione di “canzone d’amore”, specialmente in relazione alle canzoni del nostro tempo. Mi capita di osservare ancora oggi che le storie dei sentimenti, in particolare le più piccole e semplici, possono avere come sfondo uno scenario nitido, utile e realistico. Credo che basti un solo verso, una parola, magari un’inattesa ambiguità, per illuminare la scena intorno ai protagonisti, e fare in modo che la storia d’amore raccontata in tre/quattro minuti di musica e parole, non riguardi più solo il privato universo di due esseri umani immaginari, ma in concreto il vissuto o la speranza di tante persone. “J’adore Venise” oppure “I treni a vapore” sono forse un buon esempio in questo senso.

Ecco, molte delle canzoni qui contenute obbediscono in tutta semplicità a questo pensiero, altre si fanno strada e vi si avvicinano come possono, raccontando entusiasmi, dubbi, felicità e fatica dei sentimenti. Altre ancora come ”La disciplina della Terra” o ”Mio fratello che guardi il mondo” se ne allontanano per cercare un orizzonte un po’ più vasto in un genere di amore che si trasformi di volta in volta in comprensione, fratellanza, tolleranza, riflessione. Anche se una canzone non richiede in definitiva che un poco di abbandono e di leale disposizione a credere

Alcune di queste canzoni hanno avuto un successo immediato, altre mi hanno seguito in maniera quasi sotterranea e il pubblico ha cominciato ad amarle a distanza di anni dalla loro pubblicazione, come nel caso de “La costruzione di un amore”. Un buon numero sono state interpretate o riprese nel tempo da molti artisti e a questo devono la loro popolarità e anche la loro diffusione in altri paesi del mondo.

Personalmente posso solo augurarmi per queste, e per le altre moltissime canzoni che ho scritto e che scrivo, che chi ascolta possa sempre facilmente scorgere qua e là un piccolo segnale o una parola obliqua che provi ad aprire le finestre e i passaggi che tante volte ho visto, oppure ho creduto di vedere io.


 

“L’AMICO FRAGILE”
IVANO FOSSATI PER IL CORRIERE DELLA SERA

(27 dicembre 2008)

Non vado pazzo per le celebrazioni, le beatificazioni, le rievocazioni. Normalmente ne sto lontano, perchè considero sacrosanto solo il ricordo strettamente personale dei fatti e delle persone. Quello, per intenderci, che si conserva da soli, in silenzio.  Ma certo si può ammettere qualche legittima deroga a tutto questo. Fabrizio De André è stato ricordato e celebrato, forse ogni singolo giorno dal momento della sua scomparsa, come non era accaduto prima a nessun grande  artista italiano. Questo testimonia il vuoto tangibilmente grande che ha lasciato nel cuore e ancor più nel bisogno di conforto dei molti che lo hanno amato. Piccole e grandi celebrazioni avvenute un poco dovunque in giro per l’Italia. Tributi sempre più o meno accorati e a distanza di dieci anni non ancora liberati del tutto dall’ombra accompagnatrice del rimpianto. Perfino la sorpresa per la perdita di quell’uomo così discreto ma così presente nella storia dei sentimenti di questo Paese, si è fatta sentire fino all’ultimo, cioè fino a oggi. Così le celebrazioni sono state spesso vagamente lacrimose.

La memoria di Fabrizio ha diritto oggi a qualcosa di diverso, ne sono più che convinto. Merita  più delle agiografie, delle biografie, delle scontate raccolte di canzoni rimasterizzate e reimpacchettate. Merita  soprattutto di sfuggire all’aneddotica prêt-à-porter cui vengono fatalmente adattate le figure dei grandi artisti quando non sono più in grado di confutare o di precisare. Quando gli amici, i compagni di strada, quelli che sanno, che hanno visto, quelli che c’erano, si moltiplicano a dismisura.

“Fabrizio oggi è di tutti” dice Dori Ghezzi con tollerante senso della realtà. Purtroppo nessuna seriosissima esegesi, nessuno scandagliamento della sua opera ci restituisce la complessità o, se si preferisce, la completezza del carattere di De André. Così, personalmente, ho più cara nei miei ricordi la parte di lui che lo faceva “parlare basso”, da buon genovese a un altro genovese. Niente lessico da libro stampato, nessun massimo sistema, ma frequenti risultati di partite di calcio. Il Genoa. E magari qualche gioioso apprezzamento per rotondità muliebri fuggevolmente offerte da programmi TV di taglio basso. Garbato e sornione s’intende, in salsa fredda, alla ligure. Un mondiale di calcio, il festival di Sanremo, le televendite. Qualche lieve ubriacatura. Un  po’ di birre a Sestri Levante per festeggiare il testo di “A Cimma”, che ci era sembrato irraggiungibile. E improvvisamente le ginocchia di tutti e due che non reggono più per tornare a casa. Perchè non erano più gli anni settanta. Era questo un De André “semplificato” che la gente avrebbe amato e compreso ancora di più, se è mai possibile. Le leggerezze dette a piena bocca umanizzano. Sono un dono che il cielo fa agli uomini di grande intelligenza, i quali se vogliono ne usano, come per cercare riposo. Alcuni che idealizzano e rendono monumentali uomini e artisti, secondo un’immagine che non ammette imperfezioni,  non capirebbero. Fabrizio era vitale e come ogni persona del suo tipo era capace di scarti improvvisi, di spiazzamenti all’interno del suo stesso essere. Figurarsi all’esterno, cioè stargli vicino. Giornate intere di bonaccia, calma quasi piatta, e poi improvvise scosse elettriche con  rincorse verso l’alto o verso il basso. In alto lo spirito filosofico e in basso il fondo dei garbugli umani. Secondo l’umore, secondo la giornata. Troppo terribilmente intelligente per definirlo un buono. Ma quest’ ultimo era il Fabrizio che preferivo.

Invece il grande artista, quello come tutti se lo sarebbero aspettato, lo conoscevo bene. Ero stato un suo ammiratore molto prima che un suo amico. A poco più di vent’anni avevo letteralmente consumato sul piatto del giradischi “Non al denaro, non all’amore, né al cielo” e “Storia di un impiegato”. Tenevo in considerazione quei due album  al pari di quelli di Jimi Hendrix o degli Stones. Nessuna differenza. Come se la musica di Fabrizio fosse arrivata anch’essa dall’America, da Plutone o da un pianeta ancora più lontano, sul quale fosse lecito scrivere canzoni in italiano. L’eroe che aveva tradotto in musica “Spoon River”, allontanandola  dalla noia delle antologie scolastiche lo conoscevo già. Ora a distanza di anni, durante la scrittura di “Anime salve” mi piaceva di più passare quei lunghi pomeriggi piemontesi con un Fabrizio quieto e sorridente, accovacciato a terra davanti a un apparecchio radio degli anni sessanta, in attesa dei risultati delle partite di calcio, la domenica pomeriggio. “Il Genoa, il Genoa, cos’ha fatto il Genoa?” Ma la sua squadra del cuore non brillava granchè in quel periodo.

Forse questo decennale e la grande mostra che si inaugura a Genova non faranno di Fabrizio De André  un immobile monumento. Forse a Genova la marea di gente che gli vuole bene potrà servirsi da sé a piene mani e ubriacarsi di dati, ricordi e racconti digitali. In mezzo a tutte quelle immagini io dico che dovrà essere come un prolungato abbraccio festoso. Senza più ombra di rimpianto. Anche per via di quella gioia che infonde, soprattutto nei ragazzi, il poter rovistare navigando nella tecnologia. E la tecnologia risponde nell’unico modo che sa: raccontando perfettamente il passato, ma con la voce del futuro.

 


 

“MUSICISTI PER CASO 1”
IVANO FOSSATI PER IL SECOLO XIX

(agosto 2006)

Non so se sia buffo o solo curioso pensare che la poca attività musicale nella Genova negli anni cinquanta passasse tutta per il centro storico, dai caruggi. Io frequentavo le elementari ma so che a quel tempo suonare e perfino comporre musica leggera non era ritenuta una cosa seria. Le famiglie facevano di tutto per tenere lontani i loro rampolli dalla tentazione del pentagramma, e specialmente dalle canzonette; da quelle fin troppo affascinanti orchestrine semivagabonde e dagli ambienti disadattati dove per sbarcare il lunario si partiva con clarinetti, trombe, tromboni e valigie sulle navi da crociera. Oppure si suonava nei dancing di periferia fino a notte tardi per due soldi, mettendo in pericolo legami, affetti, famiglia, stabilità e reputazione.

Crocevia principale di questo viavai di speranze e di sogni era il negozio di strumenti musicali di Luigi Gaggero al primo piano di Vico Scuole Pie. Lì nelle rudimentali sale prova si aggregavano e si scioglievano le orchestre che avrebbero allietato sia le brevi crociere nel mediterraneo che le feste paesane. Oppure le rare serate di gala nei pochi lussuosi alberghi cittadini. Senza distinzione.

Era un mondo sonnolento e anche la sua musica lo era. Vecchie canzoni melodiche rivitalizzate da qualche accenno di ritmo afrocubano. Più che naturale quindi che certi famosi ballabili latinoamericani e le canzoni spensierate di Renato Carosone la facessero da padroni.

Una breve ventata di diversa musicalità venne introdotta come sappiamo di lì a poco in Italia dalle canzoni dei primi cantautori come Domenico Modugno e Umberto Bindi, ma subito dopo ecco totalmente inaspettata  l’esplosione (mai termine fu più appropriato) del Mersey-Beat, con i Beatles in testa. Il fenomeno  oscurerà praticamente per oltre un decennio, prima in Europa e poi in tutto l’occidente, ogni altro genere musicale, fiancheggiando contemporaneamente la più grande e rapida rivoluzione del costume che la storia ricordi. Quasi tutto ciò che si trova sulla scena musicale in quel momento  viene spazzato via o invecchia precocemente. Occorreranno parecchi anni perchè alcuni generi musicali ritrovino il loro posto stabile nei gusti del pubblico.

E Genova? Genova si sveglia all’alba degli anni ’60 sulle note di Love me do e di Please please me, come ogni altra città europea, senza ritardi e senza esitazioni.

Noi ragazzi, operai o studenti che siamo, avviati a somigliare alla generazione post-bellica dei “poveri ma belli” che ci ha preceduti, improvvisamente ci  lasciamo crescere i capelli (poco per la verità), cambiamo abbigliamenti e atteggiamenti, desideriamo improvvisamente sopra ogni cosa uno strumento musicale, proprio come i giovanissimi di oggi bramano un telefonino di ultima generazione. Quel desiderio di molti anni fa apparentemente fatto solo di musica si rivelerà  invece composto di aspettative che andranno molto oltre il puro divertimento. Tutti i luoghi di ritrovo, i bar, le palestre, le feste private cominciano a risuonare di  musica prodotta da chitarre elettriche taglienti e miagolanti. Musica rumorosa che è perfino qualcosa  più di se stessa, cioè quello che non è mai stata prima: totale appartenenza senza condizioni.

Sulla scia dei Beatles ricordo di aver sentito arrivare le prime canzoni degli Animals, dei Dave Clark Five, degli Yardbyrds, dei Rolling Stones. Erano quasi sempre brani abbastanza semplici, mutuati dai bluesman americani. Sembravano note e accordi a portata di mano, sembrava che bastasse avere una chitarra, comprarsi una batteria, altro che quelle vecchie canzoni di Gorni Kramer a cui ci aveva abituato la radio per anni, che se non eri un musicista fatto e rifinito non le potevi imparare per quanto erano complesse.

Ecco la chiave, ecco il segreto della rivoluzione. Musica alla portata di chiunque anche se l’esperienza più tardi ci insegnerà che non era affatto vero. Ma intanto il più grande sogno giovanile del secolo scorso stava decollando con il solo aiuto di quella benedetta chitarra e di qualche centimetro di capelli in più sugli occhi (e soprattutto all’età di quattordici anni nel sogno c’eravamo dentro per davvero senza nessuna retorica). Questo accadeva nella Genova grigia degli spedizionieri del porto, nella Genova buia delle mercerie di Soziglia, nelle periferie operaie del ponente, nelle scuole “bene” di Carignano. Come dire, dappertutto e senza scampo.

E io? Io puntuale allo scoccare del 1965 senza nessun rincrescimento butto alle ortiche il poco studio di pianoforte accumulato con spesa, fatica e poco profitto e mi abbraccio letteralmente come quasi tutti i miei coetanei a una chitarra elettrica da poco prezzo, comprata da mia madre a suon di cambiali in un negozio di elettrodomestici di via San Luca.

 


 

“Musicisti per caso 2”
IVANO FOSSATI PER IL SECOLO XIX

(agosto 2006)

Già verso la fine del ’64 le città italiane brulicano di piccole formazioni beat a imitazione di Rolling Stones e Beatles. Genova non è da meno, nel volgere di un anno si conteranno centinaia di gruppi musicali “capelloni”, fra professionisti, semiprofessionisti e soprattutto dilettanti. È un fenomeno di vastissima portata, spontaneo (basti pensare che la televisione italiana trasmetterà il primo special sui Beatles solo nel 1965) e assolutamente trasversale fra le fasce sociali. A Genova cominciano a mettersi in luce i primi gruppi: Jets, Antisociali, Bit-Nik, ma sono solo l’avanguardia, la punta di un iceberg che affiorerà totalmente di lì a poco. È interessante vedere come Genova scelga da subito un proprio suono, una linea musicale non prevista e non concordata ma che si delinea  come sentimento unanime. Così come è stato per lo stile dei cantautori anche il suono dei gruppi è tendenzialmente scabro, tagliente e più incline al blues elettrico inglese che alla canzone melodica. Questa tendenza si farà mano a mano più netta fino a diventare quasi un marchio di fabbrica all’inizio degli anni ’70.  Nelle cantine dei palazzoni di tutti i quartieri centinaia di ragazzi divisi per quartetti, quintetti o qualsiasi formazione di fantasia si producono in prove estenuanti, soprattutto il pomeriggio dopo le ore di studio. Gli assoli di chitarra si imparano dai dischi  facendoli girare a velocità ridotta. Gli accordi si riproducono approssimativamente e con difficoltà. Le parole, beh quelle, se sono in inglese si traducono in suoni gutturali e smorfie quanto più verosimili, e se sono in italiano al massimo ci sarà il problema di un po’ di accento genovese di troppo, ma non è sentito come un ostacolo. Pochi vanno a scuola di musica e dal loro punto di vista fanno bene perchè gli insegnanti di quegli anni sono di vecchia generazione, insegnano con metodi che gli appaiono subito arcaici, lenti e incomprensibili ,meglio fare da sé. Aumentano vertiginosamente le denunce per disturbo della quiete pubblica e le vendite di pulmini Volkswagen di terza mano, da ridipingere a motivi floreali. Di certo nessuno pensa di poter arrivare a incidere dei dischi e tantomeno di esibirsi per un pubblico che non siano i parenti stretti e gli amici più cari. Invece per alcuni di quei musicisti per caso accadrà anche questo, ma parecchio più tardi.

Ricordo che il tempo che avanzava dalle prove si spendeva nella spasmodica ricerca di scoperte discografiche con le quali stupire gli altri membri della band. I dischi chiesti a prestito  o comperati a metà prezzo sulle bancarelle dell’usato di piazza Banchi erano la norma, per quelli nuovissimi si faceva ricorso alla cassa comune che ogni gruppo teneva da parte.

Non va assolutamente dimenticata la fortissima componente di fascinazione esercitata sulle ragazze dagli appartenenti ai  gruppi musicali, noti o sconosciuti che fossero non aveva importanza. Niente a che vedere con il fenomeno hard delle groupies. Qui si trattava perlopiù di innocente attrazione adolescenziale amplificata dalle chitarre all’uscita delle medie o del liceo. Conosco personalmente certi ex ragazzi beat (oggi stimatissimi professionisti) che allo scopo giravano su e giù per le strade del centro con la custodia vuota della chitarra, e pare che l’ingenuo richiamo addirittura funzionasse. Tutti quei signori che oggi chiamiamo affettuosamente musicisti per caso parteciparono e determinarono  un rito collettivo, un divertimento, un vero e proprio movimento di cultura che risanò non poco la percezione della musica, ma soprattutto svincolò i tabù del costume e fece crescere a dismisura la curiosità per il mondo esterno e quindi la voglia di informazione (e per la prima volta di controinformazione) libera e credibile a tutti i livelli. Il processo  non sarebbe stato effimero, tanto che ancora oggi è un cammino in continua evoluzione, avendo generato in trent’anni fortissimi impulsi culturali e sensibilità concreta verso i diritti umani.

 


 

“Musicisti per caso 3”
IVANO FOSSATI PER IL SECOLO XIX

(agosto 2006)

Se non ci fosse stata la Blue Horizon non sarebbe accaduto niente. La Blue Horizon è l’etichetta rithm and blues che pubblica la musica “nera” in Inghilterra fra gli anni ’50 e ’70 influenzando fortemente i gruppi nascenti di quel periodo. Quasi nessuno resta immune: Rolling Stones, Animals, Spencer Davis group, John Mayall, ne sono tutti toccati e profondamente. Quella che rimbalza anche in Italia a metà anni sessanta è una mescolanza di blues elettrificato e una componente curiosamente “vaudeville” alla quale poche formazioni sanno rinunciare, i Kinks primi fra tutti. Anche i Beatles degli esordi sono molto orientati verso un R&B reso limpido dalle voci di Lennon e compagni.

A Genova piace oggi come allora quello che va controcorrente, almeno sul piano musicale. Poteva non attecchire da noi questa formula dura e ombrosa fatta di voci roche, chitarre distorte, batterie e bassi pulsanti, lontana anni luce dalle banalità melodiche dell’epoca?

Quel suono così speciale sembra conquistare la città, i suoi musicisti ma anche il pubblico. Genova diventa quasi senza accorgersene una città del blues. Certo l’immagine della città portuale e operaia aiuta, nelle smisurate periferie del ponente il blues elettrico sembra  di casa, la colonna sonora ideale per quella vita di lavoro, di lotte, di piccoli e grandi sacrifici. I gruppi sono duri, si chiamano Skints, Trolls, Gleemen, Jets, fanno sul serio, niente a che vedere coi musicisti per caso. Lasceranno una traccia profonda ed evidente, prima nella musica genovese e poi nel panorama nazionale. Più tardi arriveranno i New Trolls, unico gruppo italiano che si possa dire veramente storico insieme a pochissimi altri (PFM, Area, Nomadi).

musicisti per caso hanno formidabili esempi a cui ispirarsi durante quegli anni e ce li hanno a portata di mano. Ogni settimana nei locali e nei dancing cittadini o in quelli su per le colline si possono ascoltare Marco Zoccheddu e Bambi Fossati (insieme nei Gleemen), con il loro batterista Maurizio Cassinelli molto, molto beatlesiano, oltre a Mauro Culotta chitarra già consacrata al blues, Bob Callero che suonerà anche  con Lucio Battisti, e poi Armando Corsi, Beppe Quirici, Piero Cassano coi suoi Jets che diventeranno i Matia Bazar, Franco Gatti, coi Ricchi e Poveri, Nico di Palo e Vittorio De Scalzi con tutti i New Trolls , più tardi la Nuova Idea e molti altri . Una festa della musica, una concentrazione di talenti che solo raramente si verifica in uno stesso luogo. Certo i ragazzi, gli spettatori, i musicisti per casone hanno di ispirazione da prendere a modello in un clima musicale ricco come quello genovese. E infatti non si risparmiano, cercano di carpire tutti i segreti dai più esperti di loro. Lo fanno con l’ingenuità e la prontezza propria dei quindicenni. Imitare i maestri è difficile ma quello che conta è che l’ubriacatura di questa musica nuova e il grande sogno continuino.

Il  primo gruppo del quale ho fatto parte (complesso si diceva allora) si chiamava “the Winners”, un nome che fu tutto un programma. Per la prima esibizione pubblica avevamo preparato con cura tre canzoni, ci lasciarono eseguire solo la prima, poi venimmo cortesemente invitati a cedere il palco.

Il sogno è certamente grande ma si consuma fin troppo in fretta. I primissimi anni ’70 segnano l’arrivo del genere “progressive” e significano socialmente anche molto di più. Presto inizierà la stagione cupa degli anni di piombo e la musica ne risentirà. Il “progressive” alza di molto la posta, è un tipo di musica piena di  tecnicismi  barocchi per lo più fine a se stessi. Gli album contengono spesso lunghe suites musicali. Sono lavori a tema, piuttosto complessi pensati da musicisti di un’altra generazione, nuova e più musicalmente preparata e agguerrita. I  nuovi fenomeni si chiamano Jethro Tull, King Krimson, Yes. È il muro che non si può valicare,  il punto in cui imusicisti per caso devono deporre il loro sogno, il momento esatto in cui molte chitarre e molte batterie finiscono in soffitta , vengono svendute o passano ai fratelli minori che ci suoneranno tutt’altra musica. Avere attraversato quello snodo temporale è stato un privilegio e una lezione irripetibile,che ci ha allargato l’anima e ci ha resi più pronti a  quello che abbiamo dovuto imparare e che ancora impariamo.

Quello dei musicisti per caso è stato un fenomeno importante. Sono loro che hanno dato il primo scossone alla nostra società di allora e di certo hanno contribuito a formare la parte migliore della società di oggi. Possiamo anche stupirci, è stato un piccolo miracolo, ma la musica a volte lo fa.

 


 

“MUSICISTI PER CASO 4”
IVANO FOSSATI PER IL SECOLO XIX

(agosto 2006)

È risaputo che Mao organizzasse periodicamente nel corso degli anni ’60, in piena Rivoluzione Culturale, proiezioni private di film occidentali da visionare in compagnia degli alti funzionari del partito comunista cinese allo scopo di mostrare oggettivamente a se stesso e ai suoi collaboratori il grado di disfacimento morale  e culturale dell’occidente di allora. Fra questi reperti filmati nel 1964 egli chiese e ottenne di rendersi conto anche del fenomeno Beatles. Fu così che a Pechino un pomeriggio di quell’anno anche il Grande Timoniere assistette, probabilmente annichilito, a un’esibizione dei Fab Four.

Sarebbe un errore grossolano ripensare agli anni ’60 solo in termini di periodo d’oro della musica pop. In realtà gli effetti della mutazione dei costumi e quindi della cultura si fecero sentire in tutte le arti. Un’esplosione analoga a quella che si verificò per la musica avvenne anche nella pittura, nelle provocazioni dell’arte concettuale, nel design, per non parlare dell’improvviso cambiamento dei metodi di comunicazione pubblicitaria, e poi la poesia moderna, infine il jazz, dove capolavori come “Kind of Blue” o “Nefertiti” (per citare solo quelli di Miles Davis) vennero alla luce proprio in quel periodo. In quegli anni la guerra fredda assicurava al mondo una relativa stabilità e contrasti politici, culturali e religiosi con il medio oriente erano perfino difficilmente immaginabili. Per questo penso a quel periodo con tutta la lucidità che posso e con affetto ma senza un briciolo di nostalgia. Ridurre alla stregua di ricordo nostalgico un periodo così vitale mi sembrerebbe un grosso sbaglio.

In collaborazione con il Secolo XIX abbiamo lanciato quasi come  gioco estivo una caccia alle immagini e ai ricordi, ma anche spero un invito a qualche riflessione su cosa abbia significato partecipare o semplicemente sfiorare quel piccolo (piccolo?) rinascimento delle arti, del pensiero e della consapevolezza avvenuto giusto nel bel mezzo del secolo scorso.

Abbiamo così potuto rivedere in decine di fotografie i volti, il divertimento, l’impagabile ingenuità, gli entusiasmi di una generazione che si è distinta, come sappiamo, per non avere mai deposto completamente i propri sogni. Abbiamo parlato di loro definendoli più che affettuosamente musicisti per caso e poi abbiamo raccontato anche degli altri, quei musicisti genovesi che invece hanno tracciato una vera e profonda linea musicale parallela a quella dei cantautori. Di questo ultimo argomento sembra che il Secolo XIX voglia occuparsi ancora e mi pare un’ottima intenzione, credo che ci sia davvero molto da dire. Nessuna operazione nostalgia dunque, ma solo il piacere di rileggere attraverso immagini e piccole testimonianze un capitolo di storia comune, visto però da un’angolazione volutamente intima, ligure, per una volta non nazionale.

È certo interessante cercare di ricostruire le discendenze, le linee di parentela artistica fra i vari periodi, fra il passato e il presente, fra la rivoluzione musicale dei ’60 e le tendenze attuali. È più che lecito domandarsi quale rapporto ci sia fra imusicisti per caso genovesi di qualche anno fa e le band di oggi. Certamente il legame esiste ma sarebbe curioso sapere per quali strade è transitato e quali suggestioni lo hanno formato e rinsaldato. I giovani musicisti, quelli di oggi, hanno voce forte per farsi ascoltare, mezzi assai potenti, migliore preparazione e informazione, mentre il ricordo dei musicisti per caso era finito da tempo nel fondo di qualche cassetto (anche a torto in certi casi). Abbiamo voluto dare aria e luce a quei cassetti, proprio come si fa a volte in certe domeniche d’estate.

Ringrazio personalmente tutte le persone che ci hanno inviato le loro fotografie e i loro pensieri.

 


 

APPUNTI DI VIAGGIO: ISOLE GRECHE. PATMOS.
IVANO FOSSATI PER VANITY FAIR.

(giugno 2006)

Rita peserà su per giù novanta chili, ha un viso bellissimo, antico, statuario. Veste di nero, parla un inglese fluido e perfetto con la sua voce profonda.  Prepara giros e souvlaki per i turisti nel suo ristorantino vicino al porto sull’isola di Kos, a due passi dal famoso platano sotto il quale, si dice, fu pronunciato il giuramento di Ippocrate. È greca ma vive in Australia per nove mesi all’anno, laggiù mi racconta che fa tutta  un’altra vita, migliore e più agiata, qui ci torna solo per passione, amore per la sua isola, la sua lingua e la sua gente. I figli sono già grandi e qui non ci vogliono venire nemmeno per le vacanze, così li lascia nella piccola città dove abita a nord di Sidney, mentre lei trascorre l’estate a Kos lavorando. Quando poi torna in Australia a fine stagione, lo fa sempre via Dubai, per potere comprare i piccoli oggetti d’oro che sono la sua passione. “Una passione abbastanza dispendiosa” osservo io, “per questo mio marito mi ha lasciato” se la ride lei.

Kos è una specie di Rimini ellenica, in preda a uno sviluppo febbrile. Oggi ha un aeroporto, qualche bella spiaggia, alberghi in stile neoclassico e molti siti archeologici da far visitare di corsa ai turisti, ma un tempo ebbe anche la bellezza di trenta navi da mandare alla guerra di Troia. È uno scalo di smistamento, da dove i viaggiatori più informati e volenterosi raggiungono facilmente le autentiche isole da sogno della Grecia orientale. Gli altri, i turisti  più pigri o di bocca buona, si contentano di un mare Egeo che a prima vista pare l’Adriatico. Fermandosi qui e obbedendo ai percorsi standard delle agenzie di viaggio e dei tour operator, non si immaginano gli scenari di maestosa bellezza, di libertà, di spiritualità e silenzio, che si aprono di lì a poco, solo per chi abbia un pizzico di indipendente curiosità in più. Le isole greche sono stimate nel numero di tremila, quelle abitate sono centoquaranta ma un turista medio ne ha sentito nominare sì e no una decina.

Lascio Kos in fretta con un catamarano veloce di una delle compagnie che in estate assicurano i facili collegamenti via mare. In giugno i turisti non affollano ancora gli scali e  quelli che si spostano da un attracco all’altro, con l’aria giustamente estasiata di chi ha scovato un piccolo paradiso, sono per lo più tedeschi, scandinavi, qualche francese, e pochi italiani amanti della tranquillità. Tre ore di navigazione e sbarco a Patmos, l’isola sacra del Dodecaneso,  che si annuncia subito per quello che è, un gioiello di una bellezza che toglie il fiato. Difficile descriverne l’atmosfera sospesa fra profonda religiosità e una vocazione, del tutto naturale, all’accoglienza di un turismo che  è al tempo stesso meditativo e spensieratamente vacanziero. Qui San Giovanni Evangelista, esiliato dall’imperatore Domiziano nel 95 d.C., dettò, in una caverna oggi venerata, il libro dell’Apocalisse al suo discepolo Prochoros. Quindi Patmos è l’isola dell’Apocalisse, ma pochi luoghi come questo paradossalmente emanano un così forte senso di serenità. Il sindaco Gregorio Kamposos ci tiene a ricordare che apocalisse non significa niente altro che rivelazione. Da queste parti ci tengono.

I monaci ortodossi che scendono dall’imponente monastero-fortezza di Chora si mescolano volentieri e affabilmente agli isolani e perfino ai turisti. Non è difficile incontrarli nei bar all’aperto del lungomare di Skala, il porto principale, intenti a concedersi un  rapido rinfresco mentre i maxischermi diffondono un video dei Coldplay o di Madonna. Tutto molto naturale, come se fosse così da sempre, e probabilmente lo è.

E’ vero che al di là della bellezza delle  spiagge di acque cristalline di Agriolivado, Meloi, Kato Kampos e delle molte altre, la visita alla grotta di San Giovanni Evangelista, si sia credenti o no, è uno dei passaggi più suggestivi offerti dalla visita a Patmos, ed è curioso constatare come religione, miti e paganesimo, trovino nella luce abbagliante e azzurrina di queste isole una specie di calor bianco che li fonde insieme rendendo le diverse spiritualità quasi inestricabili.

Qui nelle isole del Dodecaneso, che sono le più lontane e le più addossate alla Turchia, se molti vecchi si ricordano di saper parlare un discreto italiano (i giovani no, la loro lingua oltre al greco è l’inglese stringato di internet) è perché queste terre furono governate, ma sarebbe meglio dire dominate, dagli italiani a partire dal 1912 fino al 1943. Patmos è sede di una delle più importanti scuole teologiche di tutta la Grecia, la scuola Patmiada, che gli italiani chiusero d’imperio per tutta la durata di quegli anni di effimero dominio. La chiesa greco-ortodossa non ce l’ha ancora perdonato. Per il resto è risaputo che da queste parti ci apprezzano con discrezione e non perdono occasione di ricordarci che siamo razza gemella.

Lungomare di Skala, una sera di giugno: i ritrovi all’aperto sono tutti forniti dei già citati maxischermi televisivi, approntati per la musica ma anche e soprattutto per i mondiali di calcio. Al primo gol della nazionale italiana contro il Ghana, nessuna reazione, silenzio e indifferenza quasi assoluti. Non ci sono abituato, o forse non sono stato abbastanza attento. Passa altro tempo e arriva il secondo gol della squadra di Lippi. Due a zero. Isolani e turisti continuano a parlare del più e del meno fra i tavolini illuminati dalle piccole candele colorate. Il commentatore della tv greca eccitato sbraita forte l’avvenimento dagli altoparlanti ma sull’isola sacra del Dodecaneso il messaggio non arriva. Io non so nulla di calcio ma so per certo che a un gol segnato ai mondiali segue un immancabile boato di folla come il tuono segue il lampo. Questa volta non accade, il tuono non arriva.

In questo tratto di mare le isole fra maggiori e minori sono così vicine fra loro che si naviga sempre a vista se il tempo è buono. Un vero paradiso dei diportisti, anche dei meno esperti. Non occorre essere capitani di lungo corso per spostarsi da una meta all’altra. Patmos, oppure la piccola Lipsi dove per tutto agosto si parla italiano e dove i nostri connazionali amanti della quiete si fanno costruire coi risparmi piccole case bianche davanti a tramonti  meravigliosi, l’austera Kalimnos, e  Leros col suo lungomare in pura architettura fascista metà recuperato e metà in rovina come un vecchio set cinematografico abbandonato, Kos, e  la minuscola Arki meta spoglia del gossip greco, e poi Agathonissi,  giù giù fino a Rodi e infine a  Kastellorizo, la più lontana di tutte e praticamente turca, piccola, bella e malinconica. Le loro coste sono sempre visibili una dall’altra e sono inoltre circondate da una miriade di scogli minori. Impossibile non avvistare terra.

Gli abitanti di queste isole che non si dedicano al turismo, ovvero che non hanno col tempo aperto un piccolo albergo, un ristorante, un noleggio di scooter, fanno ancora i pescatori, o allevano le capre come duemilacinquecento anni fa. Salendo sulle colline brulle di Leros o di Kalimnos  e osservando il mare blu cobalto sotto il sole implacabile col profumo delle erbe selvatiche, si comprende meglio come e da cosa abbiano potuto scaturire i racconti e i miti della Grecia antica. Su queste rocce abbaglianti e silenziose si narra che trovò rifugio Oreste inseguito dalle Erinni per avere ucciso la madre Clitennestra. Gli uomini mortali furono costretti per un’eternità a sognare e a raccontare le vicende degli dei piuttosto che quelle dei loro simili, perché in quel tempo indicibilmente lontano, qui intorno a godere questa accecante bellezza, non si incontrava proprio nessuno.

 


 

APPUNTI DI VIAGGIO: CUBA (GENNAIO 2006).
IVANO FOSSATI PER VANITY FAIR.

(2 marzo 2006)

Cristoforo Colombo nel 1492 crede di aver scoperto le indie, in realtà inciampa in un’ isola delle Bahamas (Guanahani), ma il secondo rimbalzo lo fa  sulle coste orientali di una terra più grande la sera del 27 ottobre di quell’anno, e la battezza Juana, in onore del principe ereditario Juan di Spagna. Peccato per lui che gli indigeni la chiamino da sempre con un altro nome: Cuba.

L’aeroporto di Camaguey è poco più di un capannone metallico ai margini della campagna, ci atterro un tardo pomeriggio di gennaio, in un tramonto rosa. L’aria è dolce, saranno ventotto gradi, con un vento lieve. Sul piazzale i pullman aspettano i turisti da accompagnare negli alberghi della costa di Santa Lucia, uno dei tratti di mare più belli di dell’isola.

Arrivati qui il tempo rallenta improvvisamente, bisogna adattarsi subito. Fra una domanda e la sua risposta c’è un riposo che da noi non esiste più. In strada è un andare e venire quieto di coloratissime automobili americane degli anni cinquanta: Chevrolet e Dodge tenute in gran forma, lustrate e ridipinte come antiche principesse, e amate come se niente fosse più importante. I turisti che arrivano in questa zona di Cuba si potrebbero dividere in tre categorie principali: quelli che non si muovono per nulla al mondo dai loro alberghi “all inclusive”, venuti per il mare, l’abbronzatura, il relax. (Avventure galanti e affini si consumano di norma molto più a ovest, verso l’Havana e le spiagge di Varadero). Dopotutto i servizi sono ormai di ottimo livello con un costo abbordabile, il sud -est asiatico dopo lo Tsunami attira poco e i Caraibi sono il mare più gettonato del mondo.  La seconda categoria  comprende i mediamente curiosi che si avventurano in escursioni guidate e programmate, sempre meglio di niente per catturare qualche ricordo che non sia soltanto l’aerobica in spiaggia con le canzoni di Ricky Martin. Gli altri infine sono coloro che amano definirsi con un vezzo “amici di Cuba”. Vengono per le vacanze ma sono sinceramente curiosi, portano con sé medicinali, giocattoli, vestiti che poi regalano alle persone che incontrano, alle farmacie, alle piccole cliniche in mezzo alla campagna. Sciamano dappertutto e sono di qualunque nazionalità. Molti gli italiani. A Cuba c’è bisogno di tanto e soprattutto di medicinali per bambini, questi turisti lo sanno, si informano, stipano in valigia quello che riescono e lo distribuiscono come possono. Iniziative umanitarie fai da te. Lodevoli, ma sono una goccia nel mare.

Se avete mai sentito parlare di mal d’Africa sappiate che l’Isola Grande dei Caraibi esercita lo stesso fascino maliardo su un numero sempre crescente di persone, e non lasciatevi ingannare, l’ideologia politica non c’entra quasi per niente, anzi.

Il mio pullman procede a sobbalzi, si è fatto buio, un buio pesto, completo. In campagna non c’è quasi elettricità, le strade non sono illuminate ma il buio è fitto di vita. I fari abbaglianti inquadrano carretti trainati da cavalli o asini, ciclisti contromano, pedoni, cani, maiali che attraversano la strada, pollame in libertà. L’autista accelera, frena, suona il clacson, sbuffa, aggira buche che inghiottirebbero una ruota per intero,  si ferma, saluta gli amici, dà un passaggio a un parente che rientra a casa dopo il lavoro, accende la radio, vorrebbe una canzone, ma sta parlando Fidel Castro ed è sempre una cosa lunga, rispegne la radio e continua a lottare con le buche. La strada da Holguin a Santiago passa accanto al villaggio di Mayarì cantato da Compay Segundo nella celeberrima “Chan chan” che ha fatto il giro del mondo grazie a Buena Vista Social Club. Sono poche case, nessun effetto è arrivato fin qui di tanta celebrità. Il film di Wenders ha  molti meriti e in particolare quello di aver fatto conoscere Eliades Ochoa, il più giovane di quei vecchi artisti e forse a ben vedere il più carismatico. Ochoa è una delle grandi voci del son cubano, la musica tradizionale dell’isola, ma non l’unica. Le espressioni musicali a Cuba sono molte e vanno dalle più antiche matrici africane alle contaminazioni più recenti con il rap, passando per l’ago della bilancia che è appunto il son, con i suoi incastri ritmici perfetti, le parole quasi sempre gioiose e perfino infantili, ma con squarci inquietanti su improvvise visioni da sabba infernale. È la Santeria, la religione parallela, come si potrebbe non cantarla, è l’Africa madre mai dimenticata.

Si può viaggiare in lungo e in largo per Cuba noleggiando un’auto ma occorre stare bene attenti a sceglierne una con buone sospensioni. Io prendo un’utilitaria giapponese piccola e rigida, me ne pento. La mia guida cubana si chiama Wladimir (qui i nomi russi si sprecano), ha poco più di trent’anni e una bambina di due che da sette mesi non riesce a curare da una banale infezione perché mancano gli antibiotici specifici. Il tempo di cura con una scatola di medicine appropriate sarebbe di sette giorni. Questi sono gli effetti più sentiti dell’embargo statunitense sempre più aspro. Un medico a Cuba guadagna l’equivalente di venti pesos convertibili al mese (circa venti euro), ne incontriamo uno che per arrotondare noleggia la sua auto ai turisti, è un neurochirurgo. Ci si arrangia, soprattutto nelle città più grandi.

Sulla piazza principale di Holguin c’è musica, un’orchestrina di percussioni accompagna una pianola meccanica, il traffico rallenta, i bambini si fanno attorno e qualcuno balla mentre aspetta l’autobus o il camion per tornare a casa. Sulla stessa piazza del centro storico, nel cortile della cattedrale, ma ben visibile dall’esterno, c’è una statua di papa Wojtyla. I cattolici cubani vi parleranno della sua visita con commozione e con meraviglia, come fosse un miracolo avvenuto il giorno prima. Viaggiando verso oriente in direzione di Santiago sfioriamo la Sierra Maestra, il nido della rivoluzione che rovesciò il “sergente” Batista. Il nido di Ernesto Guevara de la Serna, “El Che”. La Sierra Maestra è smisurata e impervia, non si lascia visitare con facilità, non è un luogo da turisti né da viaggiatori con fotodigital al collo. È un posto da libri di storia e così la lasciamo.

Qui molto si può ottenere con una mancia in pesos convertibili e allo stesso modo quasi tutto si può avere per niente. Non c’è regola. La dignità dei cubani è spesso pari al loro grado di bisogno (che misurato secondo i nostri parametri appare infinito). Arrangiarsi sì, questuare mai, o quasi, sembra essere la regola scritta nell’indole di uno dei popoli più sorprendenti che io abbia incontrato.

Una regola primaria per visitare Cuba la prima volta è non pretendere di capire tutto e subito. I cubani vi apriranno le loro case, ma per i loro cuori e i loro pensieri dovrete fare un po’ di anticamera. Comprensibile in un paese dove la comunicazione con l’esterno non è facile e perdipiù tutt’altro che incoraggiata. Possedere un antenna parabolica qui è un reato. In compenso le campagne sono disseminate di piccole scuole. A Cuba si attrezza un’aula  anche per due o tre soli scolari. Niente sembra essere più importante dell’istruzione nell’Isola Grande, e i risultati ci sono. Mancano il gasolio e gli antibiotici, ma la radio alle dieci del mattino fra una canzone e l’altra parla di Dante e di Petrarca e, udite udite, non annoia. Sempre alla radio dopo Petrarca si affaccia la Pausini che canta in spagnolo. Lei e Ramazzotti sono i soli cantanti italiani di cui si possa chiedere conto a un cubano per strada, il resto è buio. In questo momento è in atto un’ invasione di musica melodica proveniente da tutta l’america latina, sono per lo più melensaggini  patinate che riscuotono grande successo qui come in tutto il mercato di lingua spagnola. A questo si contrappone una recente mutazione del genere “salsa” che pur restando la musica più ballabile che si possa concepire, si sta gradualmente colorando di bellissimi contenuti, afro nella musica e canaglieschi nelle parole, lasciando da parte certe raffinatezze jazz delle origini. Va ricordato che la “salsa” nasce a New York per contaminazione e non a l’Havana per tradizione.

Sono convinto che lo spettacolo più maestoso di Cuba,  oltre ai cubani stessi, siano le campagne verdissime e sorprendenti, che per lunghi tratti ricordano perfino il basso Piemonte. Chi l’avrebbe detto, il Piemonte qui, ma con le palme. Abbiamo sete, è un pomeriggio caldo e Santiago è ancora lontana, ci rinfreschiamo a una “guarapera” che è un chiosco lungo la strada dove un vecchio ordigno meccanico spreme la canna da zucchero dentro bicchieri di vetro azzurro. Sembra di bere direttamente dal seno della terra. Tre centesimi e la sete è un ricordo. Si riparte. I cani sono dappertutto, apparentemente randagi, ma no, sono lasciati liberi. Non si vede un solo guinzaglio in tutta l’isola. La convivenza fra gli animali di specie diverse qui è del tutto naturale, nessun conflitto. Niente cani e gatti tanto per intenderci. Santiago è  bella e ventosa, tutta salite e discese come una San Francisco poverella, la vista dal faro del Morro toglie il fiato ma io ho preferito le campagne, i “bohios” poveri e ordinati dove vivono le famiglie contadine, e quelle strade che sembrano non finire mai, come solo al cinema. In uno dei migliori ristoranti di Santiago anni fa si è fermato Paul McCartney e i gestori ancora oggi  mostrano la sedia su cui si è seduto. Penso che Cuba gli sarà piaciuta, “Macca” è un uomo troppo intelligente per non aver capito. Santiago è diversa da tutto, ci si arrangia più che altrove e la quiete infinita delle piccole città in parte svanisce , la tensione sembra aumentare, e anche la povertà.

Al ritorno fra Gibara e Playa Pesquero ci ferma un poliziotto motociclista, ha l’aria seria, i documenti sono in regola e pure i passaporti, ma non ce li chiede, confabula col mio amico cubano, vuole una bottiglia di vodka, domenica è il compleanno della moglie e deve festeggiare. Gliela compriamo,da due soldi, mataratos (ammazzatopi) ma va bene anche quella. E poi di qui ci dobbiamo ripassare più volte in questi giorni, meglio non correre rischi, qui le cose vanno anche così.

Il giorno che precede il mio ritorno in Italia lo passo affondando i piedi nella sabbia bianca di una spiaggia celebrata. È il momento in cui tutto sembra essere diventato familiare, vivere e aggirarsi per l’isola ora sembra facile, anche se non è vero. Il parlare svelto e contratto dei cubani è diventato musica consueta, un bell’accompagnamento alle giornate. Guardo la tv, e dal mesto canale Rai International apprendo che l’Italia è in una morsa di ghiaccio, dò un’occhiata alla palma che ondeggia accanto alla finestra della mia stanza. Qualcuno in albergo mi ha lasciato un fiore sul guanciale per farmi capire che una piccola mancia sarebbe gradita ma è certo che non farebbe nulla di più per ricordarmelo. Ancora quella dignità. Penso alla musica che ho ascoltato, alle mani che ho stretto, agli abbracci, ai sorrisi bellissimi che ho ricevuto  sempre in cambio di niente.

Dopo dieci ore di volo all’aeroporto della Malpensa sono le otto e trenta del mattino. I colori sono scomparsi e fa molto freddo. Di colpo il tempo ha ricominciato a correre veloce. Gli ex turisti rilassatissimi di ieri  si spintonano già per un taxi. Mi concentro sul ricordo di una bella canzone cubana che ascoltavo solo poche ore fa, e la musica mi porta a casa.

 


 

L’ARCANGELO

L’album ha il suo fulcro nella canzone centrale: “l’Arcangelo”.

Mentre l’arcangelo, l’immigrato, il messaggero, il clandestino Gabriele fugge via dal suo inferno di guerra, sete e miseria, verso il nostro dubitabile mondo (creando così uno dei più maestosi movimenti migratori a memoria d’uomo), tutto il resto continua a scorrere in modo apparentemente normale. I sentimenti, come in “L’amore fa”, canzone costruita a rovescio, sul pilastro della frase finale “comprendere il perdono”. La stupidità avida dell’economia globale intrecciata alla paura dell’oriente incomprensibile come ne “La cinese”, messa in burla come se l’ironia potesse rappresentare l’ultima difesa verso il futuro indecifrabile. E poi la fuga verso la salvezza dalle dissennate politiche di guerra  in “Ho sognato una strada”, dove un uomo ormai solo e sganciato da ogni legame di comunità tenta di salvare almeno se stesso, aspettando un angelo e una parola. “Denny” è un unico fotogramma ( forse apertamente alla Ken Loach) di una storia d’amore omosessuale, raccontata senza i toni del rapporto diverso ma finalmente e soltanto come dovrebbe essere una canzone d’amore. Il grido rauco delle chitarre elettriche del singolo “Cara democrazia” è un’esortazione civile ad accorgersi che termini come libertà e democrazia sono sempre più, nel nostro occidente e in molte parti del mondo, abusati e svuotati progressivamente  di significato, proprio da chi promette democrazia e libertà che sono sempre piùdi mercato. “Il battito” è possibilmente la canzone più importante del disco ma è anche di per sé la più esplicita.

L’Arcangelo non è un disco intimista perchè non parla del suo autore, racconta invece degli altri, dalla prima canzone all’ultima.

L’album è costruito in due parti. La prima più veemente e a tratti dura, “In quello che è diventato il nostro mondo non c’è più nulla o quasi che possa essere sussurrato”. La seconda parte si fa via via più ironica e giocosa, come per suggerire un invito costante a non perdere forza, speranza, ma anche sorriso e ironia di fronte a quello che accade. Non è un caso che l’album si chiuda con una personale e quasi privata canzone d’amore, ma soprattutto con le parole ripetute “mai più nessuna nostalgia”. E siamo già in un altro tempo.

 


 

Ivano Fossati, prefazione alla raccolta di poesie di Anna Lamberti Bocconi “Devi chiamarmi sempre”.

(MMV Campanotto Editore – 2005)

A guardarsi intorno le poesie di Anna Lamberti Bocconi non sembrano scritte per questo tempo, almeno non per noi, donne e uomini così veloci e superficiali.

Sembrano pensate per comunicare più lontano, verrebbe da dire con genti migliori, e tuttavia non con il passato, pure se confortato dalla poderosa cultura umanistica tutta lettere maiuscole. Appaiono adatte queste poesie piuttosto per il futuro, come una lucida professione di fede nell’intelligenza.

Anna è colta, una virtuosa del pensiero, e di un pensiero sempre al lavoro, che non si stanca. È volutamente spericolata, il suo tono non è mai mite. Come i più grandi scrittori latinoamericani non si cura affatto dei prescritti limiti temporali, ma lascia scorrere insieme i suoi vivi e le sue ombre. Disegna se stessa nella matematica acidissima ironia dei suoi propri scenari, poi, non contenta, trascina tutto con forza a scarnificarsi sotto l’effetto di non-luce della lampada di Wood, finché, proprio come al luna-park, di lei (e di noi) rimane visibile nient’altro che il biancore dei denti e qualche colletto di camicia. Il resto ci chiede di indagarlo più e più volte. Quel resto andrà compreso secondo le nostre capacità, perché è una scrittura assai forte e aspra quella a cui ci accingiamo. Qui nessun termine trova il suo incastro per caso e non una costruzione ondeggia se non è voluto. La musicalità di queste parole è scabra e notevole. Nessuna opalescenza quindi, nessuna sfumatura, la fatica di Anna Lamberti Bocconi è di scalpello sulla pietra, è fotografia di ombra e sole dove tutto si separa e si staglia per linee nette, luce violenta, tagli e spacchi nella materia, e in un dolore che non cerca cura. Nessun ritorno mai, nessun rimpianto, nessuna esitazione apparente.

Si può dire che il cammino fra queste pagine sia a tratti impervio, ma è tuttavia preciso come una mappa verso la salvezza. Testimone ne è l’ultimo (inaspettato?) picco.

Così tutto sembra una lunga invocazione d’amore e di ragione, che parte dalle viscere e dal sangue per salire fino all’universo muto, lanciata come un formidabile giavellotto.

Ancora più alta e nitida mi pare di scorgere in queste poesie l’infinita generosità silenziosa di chi rimane in ascolto, aspettando almeno una risposta, da quel lontano, anche per noi.

 


 

PREFAZIONE AL ROMANZO DI BORIS VIAN
“LA SCHIUMA DEI GIORNI”, Marcos Y Marcos

(Ivano Fossati, febbraio 2005)

Tutti avremmo voluto saperne di più su Boris Vian, se lui stesso ce ne avesse dato la possibilità; se non avesse tuffato la sua vita in quell’intricato gioco di specchi, di esaltazioni e disorientamenti che sono stati la sua personalità e il suo genio.

Oggi si può tentare di ricostruire la sua figura, così fisica e dirompente da diventare per paradosso quasi inafferrabile o almeno poco comprensibile. Nei nostri anni specialistici, dove ogni uomo si suppone sappia fare bene una cosa, un mestiere, abbia una vocazione, ma appunto una soltanto, il troppo, la disparità, il talento fuorviante non passano per le strettoie dello “standard”, ovvero di ciò che deve essere buono per tutti. E anche per questo, prima di accingersi alla lettura de “La schiuma dei giorni”, occorre sapere che è un libro in cui si parla con le nuvole, è il romanzo d’amore nel quale si muovono fianco a fianco Jean Sol Partre, i Fratelli della Fede, il Professor Manducamanica, i gemelli Desmaret, e alcuni topi grigi pieni di dignità e indipendenza. Il tutto accompagnato dalla musica di Duke Ellington.

Un mondo a rovescio, un bestiario surreale con una propria estetica e una propria morale, che ricorda il Lewis Carroll di “Alice oltre lo specchio”, ma anche senza sforzo i Beatles di Magical Mistery Tour. Un particolarissimo romanzo di formazione, che porta di rimando in rimando, a molti altri racconti di questo genere letterario fino a Salinger.

Non c’è mai un orizzonte vasto per i protagonisti Colin, Chloe e Chick. Mai per loro un “campo lungo”, cinematograficamente parlando. Il ritmo è strettissimo, la concatenazione degli eventi è in realtà una concentrazione allucinogena, perché così agisce il flusso inventivo di Boris Vian, che notoriamente se ne infischia delle regole. Le invenzioni e le distorsioni linguistiche sono molte e spassose, non c’è angolo o aspetto che appartenga alla tipica espressività borghese che l’autore non manometta. L’acido anarcoide scorre dappertutto. Eppure “La schiuma dei giorni” è in sostanza un delicato racconto sull’amore e sulla generosità, anche se ogni legge vi viene sovvertita, ed è inoltre un racconto psichedelico e lisergico ante-litteram (nessuna meraviglia che Vian sia membro del Collège de Pataphisique, l’associazione letteraria non convenzionale fondata allo scopo di perpetuare la memoria di Alfred Jarry).

Nonostante il tempo che lo separa dalla psichedelia degli anni sessanta non sia poi molto (meno di vent’anni, il manoscritto è datato 10 marzo 1946), è curioso constatare come il romanzo faccia un balzo verso di noi, superando le sempre nettissime barriere del gusto giovanile fino ai nostri giorni, e così non accada per il suo autore, che appare ancora a molti e per vari aspetti legato al suo tempo, al dopoguerra parigino, all’avanguardia, e all’esistenzialismo. Le frequentazioni eccellenti (Queneau, Paul Eluard, Simone de Beauvoire) e le distrazioni altrettanto eccellenti, come la vitalità forsennata, l’amore per l’amore, la buona cucina e il jazz, fanno del giovane multiforme artista malato di cuore, uno dei talenti più imprevedibilmente prolifici che la cultura del secolo passato possa annoverare.

In soli trentanove anni di vita Vian riesce ad essere trombettista jazz, scrittore, ingegnere, autore di più o meno cinquecento canzoni, fra surreali comiche o epiche (come la famosissima “Le deserteur”); riesce ad essere cantante lui stesso, ballerino, discografico, giornalista e critico. Si serve di una ventina di pseudonimi, dal più celebre Vernon Sullivan a Joelle de Beausset a Agenor Bouillon ed altri ancora, ma è sempre lui. Molte vite,tutte brillanti, racchiuse in una sola e piuttosto breve: la sua. Incontra anche Duke Ellington e Miles Davis prima che il suo cuore si arresti improvvisamente nel 1959, l’anno in cui Miles squaderna per sempre tutto il jazz, incidendo in due giorni il capolavoro “Kind of blue”, insieme a John Coltrane, proprio ad un passo, ad un solo minuto si potrebbe dire, da quegli anni sessanta che sarebbero esplosi come una polveriera nel bel mezzo del secolo, e probabilmente avrebbero fatto della figura sovversiva di Boris Vian una gigantesca icona generazionale.

Invece Vian è tuttora poco conosciuto fuori di Francia, e particolarmente nel mondo anglosassone. I riferimenti ufficiali e le enciclopedie liquidano generalmente la sua produzione poderosa in poche righe.

Boris Vian ammira Bertolt Brecht e questo si avverte nella sua scrittura. Anche lui adotta un linguaggio crudo e tagliente, possiede un senso della sintesi notevole ma si concede molte più stravaganze. È difficile comprendere appieno il carattere dirompente e profondamente antiborghese de “La schiuma dei giorni” se non mettendo il romanzo in relazione al resto delle sue opere, siano esse altri romanzi, poesie o canzoni.

Vale la pena di riflettere sulla seconda parte di questa storia d’amore, e sul suo finale da molti percepito come di una tragicità assoluta. Credo che si tratti invece del vero colpo di maestria di Boris Vian che ci ricorda con lucidità, abbandonando gradualmente il territorio narrativo del suo teatro dell’assurdo, che quando l’amore chiude il suo sguardo su di noi, anche il mondo attorno perde poco a poco colore, dignità e dimensione ( niente di più realistico e di più vero). Semplicemente si dissolvono l’interesse e la gioia che noi stessi avevamo costruito sui grigiori della realtà comune.

Chloe, l’amore di Colin, è affetta da un male tanto curioso quanto inesorabile, e Vian ci mostra come l’amore, morendo letteralmente, trascini con sé fantasia e giovinezza e restituisca gli esseri umani a quella verità, a quel “resto” senza eccessi, senza splendore e soprattutto senza più musica di Duke Ellington, che, come scrive nell’introduzione al romanzo egli stesso: “sarebbe meglio che sparisse”.

 


 

Amnesty International

Secondo le stime più prudenti, nel mondo vi sono almeno 20 milioni di uomini, donne e bambini in fuga dalla guerra, dalla persecuzione politica e dalla tortura.

Queste persone cercano disperatamente e urgentemente una sola cosa: protezione.

Solo una piccola percentuale di rifugiati chiede asilo nei paesi dell’Unione Europea. Nella maggior parte dei casi, chi cerca asilo politico trova riparo nella stessa regione di partenza. Altri muoiono prima di arrivare sulle nostre sponde.

Negli ultimi anni il maggior numero di domande di asilo politico nei paesi dell’Unione Europea è stato presentato da persone provenienti da Turchia, Iraq, Afghanistan, dalle zone della Ex Jugoslavia e dalla regione africana dei Grandi Laghi. Zone di guerra e di conflitti alimentati spesso da un lucroso e sanguinoso commercio di armi.

La ricerca della sicurezza, all’indomani dell’11 settembre 2001, ha spinto molti paesi a considerare con sospetto chiunque arrivi da determinate zone del pianeta. Aumentano le misure per impedire l’ingresso dei rifugiati, aumentano le domande di asilo respinte, aumentano le espulsioni.

I mezzi di comunicazione, col loro linguaggio ansiogeno e bellico (invasione, sbarco, guerra ai clandestini, emergenza extracomunitari) alimentano la percezione che i rifugiati, anziché avere dei problemi, costituiscano un problema.

 


 

Note di presentazione al disco live “Dal vivo vol. 3”

Come forse alcuni sanno, non ho mai amato troppo compiere delle tournèe, tenere concerti, esibirmi, e molto altro di ciò che è legato alla rappresentazione del mio mestiere; questi ultimi anni per me non hanno fatto eccezione, anzi. In questo periodo straordinariamente difficile per il nostro mondo, andarsene in giro a cantare canzoni di qualche tipo, pone forse più di qualche piccolo problema personale, se non addirittura morale.

Capita tuttavia (di rado) che il nostro confortevole guscio semovente, fatto di amici musicisti, di collaboratori ingegnosi, di tecnici e di affetti, approdi a una serie di porti amichevoli, ovvero città, teatri, ore, e giorni favorevoli a una comprensione che certamente rimane imperfetta, ma che si fa curiosamente più limpida del solito, perfino se per “solito” intendiamo qualche decina d’anni.

È così che fra alcune buone intuizioni musicali, vecchie e nuove amicizie, goliardie rispolverate, stanchezza ignorata, lunghi viaggi, ottime speranze, e delusioni trascurabili, si è concluso un tour che abbiamo chiamato acustico e che ci ha lasciati tutti, al suo termine, un po’ più rafforzati in noi stessi, un po’ più attenti e in ascolto degli altri, con maggiore voglia di riflettere e maggiore voglia di discutere, perfino di parlare. Un poco più profondamente legati fra noi di sempre e molto più comunicativi. Ecco una ragione per un album di canzoni che raccoglie tutto questo. La seconda potrebbe trovarsi nella mia -spero non troppo presuntuosa- convinzione di avere dato di alcune particolari canzoni la più consapevole (comprenderete se evito il termine “matura”) interpretazione ad oggi, ma lascio a voi giudicare.

Nell’era di internet nessuna raccolta di musica (o d’altro) è davvero fondamentale, niente appare irrinunciabile; possiamo avere tutto e farci mancare altrettanto e dato che le due opzioni spesso coincidono la seconda si presenta talvolta come la scelta migliore.

Affido volentieri queste registrazioni dal vivo al vortice delle “informazioni” di ogni giorno, con la certezza di vederle scomparire nel gorgo di ciò che appare e di ciò che si perde, ma si tratta di una corretta fotografia che rappresenta me e le mie canzoni oggi e penso valesse la pena scattarla. I ritratti, se ben riusciti, abbiamo speranza di ritrovarli, prima o poi, alle pareti delle case più lontane, accanto alle persone meno previste: questo ancora mi piace della musica in generale e del mio lavoro in particolare.

 


 

Ivano Fossati, prefazione all’agenda 2004/05 di Amnesty Italia.

Molti anni fa, quando lessi per la prima volta “Se questo è un uomo” di Primo Levi, pensai ingenuamente che dopo quella denuncia, dopo quel grido di dolore così alto e planetario, ogni prevaricazione degli esseri umani su altri uomini, ogni negazione dei più fondamentali diritti sarebbe terminata per sempre. Pensai che la lezione dell’Olocausto fosse stata l’insegnamento definitivo circa la bestialità del potere impazzito, credetti che un altissimo cancello di acciaio si sarebbe inesorabilmente alzato fra la violenza, il sopruso grave e il resto della nostra civiltà. Non era così, come abbiamo imparato fin troppo bene nei decenni che sono seguiti a quella tragedia, sempre ostinatamente senza pace e senza diritto per gli esseri più deboli.

HRD, Human Rights Defenders. Sapessimo indossare anche noi, come un abito nuovo, la determinazione, la volontà, la consapevolezza di “essere la libertà degli altri”: come coloro che ricercano, segnalano e diffondono informazioni preziose sulle violazioni dei diritti fondamentali. Se ancora non ci siamo imbattuti nella dichiarazione universale dei diritti umanifacciamolo al più presto, perché, con chiarezza, comprenderemo che ogni giorno, a poca distanza da noi (con la spudoratezza di leggerne anche sui giornali), viene violata la costituzione più nobile e necessaria in questo tempo orwelliano di notizie filtrate e travestite. Dove sono la dignità dell’individuo, la giustizia, la libertà, il diritto, che dovevano essere garantiti e protetti da quell’altissimo cancello?

Se più spesso volessimo rileggere e meditare i trenta brevi articoli di questa dichiarazione, forse impareremmo per scelta e con coscienza a proteggere anche dalla nostra pur piccola realtà, con coraggio, i diritti dei più isolati, dei più deboli, dei più lontani, degli indifendibili.

L’ascolto, l’attenzione, la conoscenza sono comunque la nostra forza, il segno dell’urgente rispetto di quella dignità umana che non si può sottrarre ad alcun individuo sulla Terra, come l’acqua per la sete, o meglio, come tutto ciò che dovrebbe essere normale.

 


 

Ivano Fossati, Corriere della sera

(12 febbraio 2004)

Va assai di moda interrogarsi sul rapporto fra musica e poesia. Chiarisco subito che per musica intendo in questo caso quella leggera, magari non leggerissima, ma che va generalmente sotto la sciagurata definizione di canzone d’autore. Chi fa il mio mestiere è abitualmente invitato, in ogni luogo d’Italia, con ogni tempo, in ogni stagione e contesto, e con ogni pretesto, davanti a piccoli e grandi uditori più o meno vivaci, a tentare di sciogliere lo scuro nodo che pure si va facendo classico: se la canzone sia o non sia da considerarsi almeno parente della poesia, in qualche modo o a tutti gli effetti. Mah!

Con i dovuti discernimenti, le ipocrisie, le discriminazioni d’uso, e considerati pesi e proporzioni fra gli autori, non ultimo le vendite, a qualche conclusione si può tentare di arrivare.

Il mondo della musica quasi-leggera è ad alta tiratura, ad altissima esposizione e notevole rischio. Quello che amiamo dei poeti di oggi e dei loro lettori, dei loro affezionati librai, è l’oggettiva clandestinità, il gusto d’ombra e di silenzio, lo scambio segreto. C’è poco da ridere. Siamo relegati a un’idea decadente, sgangherata e soprattutto vaga di Poesia. Specie per quanto riguarda il Novecento e ancor di più per il contemporaneo stretto. A scuola abbiamo affrontato (costretti e afflitti) e maldigerito anni interminabili di poesia monumentale, squadrata, rimata e assonante, anzi assordante nel suo incedere trionfale. Quanto bene sarebbe stato, mi dico oggi, consumare occhi e memoria su altri poeti. Rinunciare ai pomeriggi di sole rosso invernale per qualche Dino Campana in più. Avessero saputo dirci già allora di Caproni e poi di Pasolini in friulano, di qualche rumore futurista. Ci avessero parlato di musica insomma. Avessero saputo cantarci meglio all’orecchio il Falsetto di Montale, oggi del concetto di musicalità ne sapremmo tutti un po’ di più. Così non sarei costretto a guardare negli occhi questi ragazzi che mi fanno domande preconfezionate e non aspettano la risposta. Certo, in qualche caso si può accendere un guizzo di attenzione, sempre che la risposta di cui sopra furbescamente tocchi o almeno sfiori qualche eroe del rock multinazionale, o qualche canzone da classifica. Sono questi i piccoli sotterfugi di chi non vuole rischiare di parlare a file di seggiole vuote.

Ho sempre sostenuto che poesia, quella vera e alta, e musica-canzone sono espressione di “mestieri” diversi. Quando mi sono innamorato di uno scritto poetico ci ho sempre trovato la sua musica dentro, già bella e pronta. Partiture complesse, delicate e soprattutto consapevoli. La musicalità, gli uomini ce l’hanno o non ce l’hanno, è innata, nessuno la insegna e nessuno la vende. Certi grandi poeti l’avevano, altri oggi la possiedono in misura pari ai musicisti. Io fra Antonio Carlos Jobim e Eugenio Montale faccio poca differenza, fra Sibelius e Pasolini preferisco il secondo, fra l’intera “scuola di Vienna” e Bertolt Brecht comprendo meglio lui. Sono percezioni personali, nulla su cui costruire teoremi stabili. Ma una volta accettato che autori di canzoni e poeti fanno un diverso mestiere è lecito chiedersi se almeno qualche volta si prendano sottobraccio per qualche passo insieme, se si guardino da lontano o se passino il tempo almeno a spiarsi, a studiarsi un po’, vicendevolmente. Su questo punto si registrano le maggiori reticenze. L’autore di canzoni non confessa volentieri di nutrirsi di poesia (sarebbe come ammettere di temere una ricorrente povertà di spunti, che necessita di qualche iniezione di idee, almeno di tanto in tanto). I poeti, giovani o meno, non so cosa pensino di noi musicanti, e per lo più non ce lo fanno sapere, se non in segreto, all’orecchio, con qualche lettera privata. Per posta insomma.

Ho imparato a conoscere Vinicius De Moraes perché scriveva canzoni (e che canzoni!) insieme a Toquinho, nel Brasile degli anni settanta. La meraviglia di quelle composizioni era, ed è tutt’ora, che suonavano così semplici, qualche volta come adorabili “canzonette” piene di buonsenso e di bellezza. Dio lo benedica, perché si sporcava le mani e anche i piedi con questa materia.

Va pure ricordato che giovani e giovanissimi poeti, veri o sedicenti, si avvicinano agli autori di canzoni nella speranza di vedere musicato ( e quindi pubblicato) un frammento della loro ispirazione, almeno una volta. Siamo nel tempo delle scorciatoie, dei grandi fratelli, gli scrittori vanno mestamente alla televisione con la copertina dell’ultimo libro fra le mani e tutto è lecito per accendere la scintilla di un momento. Al dopo ci si pensa dopo. Appunto.

Quindi rare simpatie e ancora più rare collaborazioni fra musica e poesia. A meno che per collaborazione non si intenda lo spupazzarsi un poeta in odore di Nobel davanti alle telecamere della tivù, che se si arriva primi si lascia una bella traccia, e per chi scrive canzoni è sempre un buon investimento.

È che i linguaggi cambiano e accelerano sempre di più. La materia di cui parliamo così volentieri e abitualmente, e che crediamo essere il nostro campo, ovvero quello di cui sappiamo qualcosa, in realtà è sabbia mobile, ghiaccio in movimento. Il pensiero poetico che attraversa la musica e qualche volta è sostanza delle canzoni, è oggi un curioso paradosso, infinitamente più alto e contemporaneamente più basso di venti o trenta anni fa. Da un lato una instancabile ricerca di contenuto, di poetica visionaria, di una qualche credibilità. Dall’altra un raschiare con le dita il fondo di ogni comunicazione semplificata, di ogni slogan, di ogni giovanilismo linguistico, di ogni tutto e subito.

L’applicazione pubblicitaria più efficace e immediata all’ansia di essere, se non compresi, almeno ascoltati, e almeno per una volta. Ma per i musicisti e i poeti non è sempre stato così?

 


 

Ivano Fossati per ICoN
Italian Culture on the Net

(Anno accademico 2002/2003)

Nel tratto di costa ligure dove vivo non è raro incontrare persone dal nome ispanico e dal cognome di antica appartenenza locale o addirittura genovese. Un bel connubio fantasioso, quasi letterario, che fa simpatia, sa di lontano, di tempo e di spazi. Sono i ritornati: figli, nipoti, spose e mariti, insomma nuclei o frammenti di famiglie emigrate in un anno più o meno lontano per fare “la fortuna” in America latina. La fortuna si sa è assai più che capricciosa, per niente giusta e imparziale, non conosce equità. E’ la fortuna appunto. Così queste genti rientrate dal sud-America non sono sempre ricche, a volte nemmeno benestanti. Alcuni hanno preso di petto l’onda sbagliata del tempo; sono partiti troppo tardi, o ritornati troppo presto, hanno avuto troppo timore del loro divenire laggiù, oppure troppo poco. Certamente chi è rimpatriato insieme alle fortune grosse esiste eccome. Le ville bellissime e coloniali nel centro della città di Chiavari lo testimoniano –costruite proprio da loro, dai ritornati di antica data- sono oggi mantenute in silenziosa, immobile, disabitata bellezza come accade a certe barche troppo belle, troppo grandi e cariche di storia per essere cedute a un ricco signor chiunque, ma anche troppo costose difficili e delicate perché possano prendere ancora il mare.

Quando scrissi, una decina d’anni fa, la canzone Italiani d’Argentina, tutto avrei voluto rappresentare tranne l’abusata cartolina del tango, tranne la nostalgia, la storia dell’emigrante e nemmeno il tentativo di storicizzare in quattro minuti un frammento dell’emigrazione. Mi colpiva invece allora come oggi lo scollamento delle generazioni dal proprio tempo, da quella che sarebbe stata la loro cultura. Mi sarebbe piaciuto ottenere un tratto leggero e impressionista circa quella che chiamo seconda generazione, anche se questa definizione non va presa, né io stesso la intendo, nel suo senso più stretto.

Mi affascinava la posizione di coloro che mi parevano non ancora approdati dall’altra parte, la gente di mezzo, non del tutto ispanica ma da decenni non più italiana, generazioni con davanti a sé i sogni di un paese lontano e diverso a cui predisporsi e con alle spalle il ricordo, la lingua, gli affetti, il lavoro e la tradizione di una terra che per forza materiale deve cedere il passo e il posto. Generazioni a cavallo di un oceano, figli di antichi italiani e padri di perfetti argentini. Ma loro? Loro incapaci spesso di scrivere una lettera in un linguaggio che non fosse la commistione di due, a volte di tre lingue diverse; perché non di rado in quello scrivere compariva, e forse compare tuttora il dialetto.

Ho letto intere raccolte di lettere degli emigrati prima di scrivere Italiani d’Argentina e mi sono concentrato a suo tempo sulle più recenti, che datavano dal finire degli anni 60 in poi. Apparivano sempre uguali e come sovrapponibili le une alle altre, venate di una malinconia disincantata, si direbbe moderna o contemporanea; piene di quella consapevolezza della lontananza, così difficilmente guaribile oggi che qualsiasi luogo è davvero vicino. Piene di quel senso di disorientamento dell’essere e del dubbio delle scelte, specie quando gli eventi intorno smettevano di dare ragione e sicurezza allo scrivente. Quel tipo di distanza che non si riannoda con l’acquisto di un biglietto aereo ogni tre-quattro anni.

Ho adoperato il simbolo della trasmissione radiofonica, per di più notturna in quella canzone, quando le onde viaggiano più lontano ma ugualmente non garantiscono che incontreremo le parole dell’altro che sta di la dal mare, né che le capiremo adesso o mai.

Il piccolo sogno che sta chiuso dentro una canzone equivale a qualsiasi altro formulato in modo differente, e l’America del sud è ancora sogno per noi europei, è spazio e crescita, è lotta e disordine politico, libertà attentata, economia incomprensibile, tutti elementi grandi, gravi e importanti, ma il territorio del sogno è sterminato e capace di raccogliere tutta questa storia contemporanea avanzando ancora spazio, distese, bellezza e umanità a non finire.

Ecco quello che continuiamo a invidiare ai nostri italiani d’Argentina, il concetto di “sconfinato” così estraneo a noi qui. Viene legittimo il sospetto che valga la pena rischiare gli esiti della propria esistenza per la bellezza di terre infinite; che valga la pena anche di essere orgogliosi della propria scelta, per aver desiderato un orizzonte che si sperde agli occhi. Considerazioni da romanzo di Conrad, non so quanto attinenti e rapportabili alle contingenze storiche ed economiche di questi anni. E’ che ho sempre amato chi è partito con minore o maggiore fatica, ho sempre subito forte il fascino di chi si è arrischiato nei luoghi più lontani della terra, arrabattando il suo nome mezzo così e mezzo così, facendosi capire, facendosi rispettare e in definitiva amando quella nuova immensa casa, quasi sempre facendosi amare.

Ecco più o meno quanto può essere stivato dietro o sotto le parole di una canzone; un tratto semplicemente, non un racconto ma sentimenti e riflessioni che si incrociano e forse si aiutano. Certo chi ascolta deve da parte sua saper leggere un po’ più in profondità, deve saper svelare qualche facile segreto, che le parole e perfino la musica difendono, ma con un poco di pazienza l’immagine si mostra nella sua forma semplice e intera.

Italiani d’Argentina è del 1990, oggi la affronterei in modo diverso? Non so, fortunatamente per noi e per gli altri le canzoni si scrivono senza troppo sforzo una volta sola.

 

Ivano Fossati

(From: http://www.ivanofossati.it/typewriting.php)

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