Boris Vian, nato nel 1920 a Ville d’Avray, durante la guerra divenne ingegnere e iniziò a lavorare all’Association Française de Normalisation. Contemporaneamente, frequentava gli ambienti esistenzialisti e si esibiva in un’orchestra jazz al “Tabou”. Nel biennio 1946-1947 collabora a “Jazz-Hot”, “Les Temps Modernes” e “Combat” e scrive quattro romanzi: “Vercoquin e il plancton”, “La schiuma dei giorni”, “L’autunno a Pechino” e soprattutto “Sputerò sulle vostre tombe”, attribuito a un fantomatico scrittore americano, Vernon Sullivan, che gli darà notorietà. Negli anni seguenti però, anche in seguito all’affrettata produzione e all’equivoco sull’attribuzione dei testi, il fenomeno Vian si sgonfia. Boris si dedica alla traduzione, che gli frutta economicamente: quindici testi in quindici anni. Dovrà passare del tempo prima che trovi il coraggio di affrontare ancora il pubblico dei romanzi: lo farà nel 1953 con “Sterpacuore”. Nel frattempo scrive per il teatro e per le riviste di jazz, consolandosi di non poter più suonare la tromba a causa di problemi cardiaci. Negli ultimi anni invece si dedicherà all’opera, scrivendo due libretti (“Il cavaliere delle nevi” e “Fiesta”), e alla canzone – ne scriverà quattrocento, dirigendo la Philips francese – pubblicando anche un disco con dodici pezzi cantati da lui, “Chansons possibles et impossibles”. Qui risulta ancora evidente il suo anticonformismo: uno dei brani, in piena guerra d’Algeria, è l’antimilitarista “Le diserteur”, fatto che porterà le autorità a togliere il disco dalla circolazione. Vian poeta non si smentisce: i suoi versi sono eccentrici, graffianti, deliberatamente provocatori. La consapevolezza della fine spinge il poeta a negare il mondo, a cercare in un altro luogo qualche barlume di felicità, scegliendo la sensazione invece dell’introspezione, giostrando con il linguaggio per ottenere musica infischiandosene di tutte le convenzioni.

Da “Non vorrei crepare”, postumo, 1962

Un poeta

Un poeta
È un essere unico
In tanti esemplari
Che pensa solamente in versi
E non scrive che in musica
Su soggetti diversi
Sia rossi che verdi
Ma sempre magnifici.

 

Perché vivo

Perché vivo
Perché vivo
Per la gamba gialla
D’una donna bionda
Appoggiata al muro
In pieno sole
Per la vela gonfia
Di un battello del porto
Per l’ombra delle tende
Il caffè ghiacciato
Che si beve con la cannuccia
Per toccare la sabbia
Vedere il fondo dell’acqua
Che diventa così azzurro
Che discende tanto in basso
Con i pesci
I calmi pesci
Pascolanti sul fondo
Che si librano sopra
I capelli delle alghe
Come uccelli lenti
Come uccelli azzurri
Perché vivo
Perché e bello.

 

Voglio una vita a forma di spina

Voglio una vita a forma di spina
Su un piatto azzurro
Voglio una vita a forma di cosa
Sul fondo di un coso solitario
Voglio una vita a forma di sabbia fra le mani
A forma di pane verde o di brocca
A forma di molle ciabatta
A forma di «dirindindina»
Di spazzacamino o di lillà
Di terra piena di sassi
Di barbiere selvaggio o di piumino folle
Voglio una vita a forma di te
Ed io l’ho, ma non mi basta ancora
Non sono mai contento.

(Traduzioni d G.A. Cibotto)

 

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