Prima di entrare in teatro, guardati le spalle. Se a seguirti è la tua ombra, fai attenzione. Lei non molla, ti perseguita. E poco scampo lascia. Conosce le tue mosse, dribbla abile ogni movimento, schiva i tuoi passi. E allora, biglietto alla mano e paltò sopra il braccio, hai due possibilità: o cucirtela addosso, ago e filo, alla maniera di Peter Pan, tenendola a bada; o lasciarla correre via, verso la nebbia, nel parcheggio. Dartela a gambe. Entrare di corsa in teatro, spegnere lo smartphone, come suggerisce una voce dall’alto, e dopo aver fatto perdere le tue tracce, restare in platea. Buio in sala.
Lo spettacolo può iniziare.
Da questo momento non sai bene che cosa accadrà. Pensi ad un concerto, ad una serie di pezzi che si susseguiranno uno dietro l’altro. Pensi, essendo avvezzo all’eclettismo di Capossela, ad una catena di artifici che in scena prenderanno vita. Ma nulla di quello che poi avviene, puoi solo immaginare. Improvvisamente ti trovi catapultato in un vero e proprio luogo dell’altrove. Pieno di luci fioche, ombre, ululati e spaventi di ogni genere. Pieno di personaggi, copricapo fantasmagorici, immagini che corrono su uno schermo. Pieno di atmosfera. Luci, poche, in sottofondo (la regia mirabile è di Loic Hamelin). Il padrone di casa compare e scompare dietro un sipario leggerissimo, che come pellicola ci separa da quel luogo magico. Sul palcoscenico, Vinicio, che ombra su ombra, costruisce un incantevole percorso nel profondo: scende nella notte, accarezza il sentiero della Cupa, abitato da creature fantastiche, liberandole al pubblico con la grazia del suo cuore, svela e disvela, lentamente, tra piano e voce e chitarra, circondato da musicisti in orecchie d’asino, che asini non sono per niente (Alessandro “Asso” Stefana (armonio e campionatori, ndr), Glauco Zuppiroli (basso), Peppe Leone (tamburi, mandolino, violino agricolo), Giovannangelo De Gennaro (viella, aulofoni, strumenti antichi e voce), Edoardo De Angelis (violino), Vincenzo Vasi (percussioni, campioni, theremin, voce) la seconda parte del suo disco, uscito nel maggio scorso. Ombra. Ombra dopo la Polvere.
Poca requie, si corre a tambur battente. Le canzoni, nella prima parte, sono quelle del disco nuovo (Le creature della cupa, Il pumminale, Scorza di mulo, ecc..), nella seconda le sue storiche tracce tornate a suonare, in abito più da sera, come si conviene ad un tour in teatro, nel nero pianoforte verticale (tornano Modì, Fatalità, Corvo torvo e molte altre). Instancabile Vinicio lascia al pubblico non troppo tempo: tra uno stupore e una meraviglia, incalzante propone un passo e poi un altro, alternando parole, piume, sterpi, leggerezza di suoni e mostri che spaventano i bambini.
Puoi restare letteralmente stordito dalla quantità di sensazioni fisiche, quasi tattili, che ti investono mentre tu, seduto in platea, ti continui a chiedere la tua ombra dove sia.
È gioco di rimandi e metafore. È viaggio nella cupa sensazione che ognuno di noi sia vittima di se stesso, ma che alla fine di un cammino buio e scosceso, giunga la luce.
Quando, dopo una carrellata di bis scelti con grande cura per ogni città in cui il concerto si è consumato (proprio come un pasto pantagruelico), la luce si accende, tu ti ritrovi abbracciato in modo del tutto involontario al tuo vicino di sedia, senza accorgertene. Mentre le ultime note di Ovunque proteggi cadono lente dal piano.
L’ombra non c’è più. La notte se n’è andata.
Luci in sala.
Buonanotte e sogni d’oro.

Articolo di

Laura Rizzo

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