« Noi siamo fatti in modo che amiamo le cattive notizie quando si riferiscono agli altri (…). La cronaca nera infatti è nata proprio per soddisfare quello che i tedeschi chiamano “Shadenfreude” che vuol dire piacere per la disgrazia toccata al vicino (…). I telegiornali sono come il “Ricordati che devi morire” della regola monastica. Ricordati che andrà sempre peggio. Il peggio deve venire. Buonanotte. E ti punisce facendoti capire che prima o poi toccherà anche a te. »
(Elio Petri, 1979 )

Un anonimo funzionario di una società televisiva conduce una vita ordinaria, pur versando con la propria moglie in un’evidente crisi coniugale, caratterizzata da una forte incomunicabilità. Un giorno, il protagonista viene contattato da un vecchio amico che non vedeva da tempo, con il quale s’incontra. Questi gli confida di essere minacciato da misteriosi sicari. Dopo alcune traversie, tra le quali un’avventura erotica con la moglie dell’amico quest’ultimo, prima di morire, gli fa pervenire una busta con la dicitura “da non aprire”. La busta contiene una serie di bigliettini che ripetono enigmaticamente la stessa frase. Al funerale, celebrato con rito ebraico, inoltre il protagonista ritrova la moglie che gli confida di aspettare un figlio dall’amico ucciso.

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Buone notizie è «il risveglio desolato e disperato dellʼuomo allʼindomani della sconfitta in una società idolatra di feticci che non conosce più sentimenti: Giancarlo Giannini è quellʼ“uomo” cinico – significativamente lʼunico personaggio senza nome nel film, e cioè senza più identità, arreso definitivamente allo status quo – che sussume in sé tutti i mali della società e li rivomita addosso ai suoi simili. È lʼesito estremo della società spettacolarizzata: la parola, il gesto, lʼazione e il sentire umani equivalgono definitivamente, e senza più vie dʼuscita, allʼessere parlati, gestiti, agiti e sentiti dal potere. Il corpo dʼattore di Giannini si muove abilmente come un fantoccio svuotato di umanità e ʻanimatoʼ da scatti nervosi e parole, sguardi, gesti franti. A questo “uomo qualunque” fa da contraltare lʼumanità ʻcrassaʼ di Gualtiero-Bonacelli, volto e corpo di una residuale e disperata forma di autenticità. Autenticità che è destinata allʼannientamento: lʼassassinio senza movente di Gualtiero Bonacelli si consuma sul letto di una clinica psichiatrica (perché egli, in quanto ʻpuroʼ, è un folle). Il finale si chiude su un nonsense che consegna crudelmente allo spettatore lʼimpossibilità di comprendere, ovvero la disfatta totale».[3]

Buone Notizie rappresenta «un film ferocemente pessimista dipinto come un affresco ambiguo e surreale (debitore del cinema di Buñuel) ambientato in una Roma irriconoscibile, minacciosa e decadente, straziata e violentata dal consumismo i cui resti immondi marciscono ai piedi di monumenti millenari e popolata da una serie di personaggi nevrotici che si esprimono con un linguaggio frantumato e incomprensibile, pervaso da una vena di malinconico sarcasmo.»[4]

Arte, passione civile e disincanto in Elio Petri, lasinovola.it, 7 novembre 2013.  

Buone notizie ovvero La personalità della vittima, rapportoconfidenziale.org,  

Fonte:

https://it.wikipedia.org/wiki/Buone_notizie_(film)

Buone Notizie
ovvero la personalità della vittima

di Fabrizio Fogliato

Il senso della morte era un’ossessione. In certi momenti il sentimento della morte era così forte che non riuscivo più a mangiare e a dormire”. Per un regista come Elio Petri, personalità poliedrica e complessa, difficilmente liquidabile come un semplice “regista” di film, le ossessioni personali, le disillusioni verso un mondo che stenta a riconoscere e a riconoscerlo, prendono forma attraverso concetti scritti in ordine sparso come fossero degli appunti: la paura della morte, la depressione latente, e le perplessità di fronte a una realtà storica che ha tradito le aspettative rivoluzionarie, si condensano in un magma difficilmente penetrabile, così che solo l’abbandono ad una sgradevolezza programmata può dare e dargli quelle risposte tanto agognate. “Per fare un film bisogna avere, oggi molta follia e molto amore per il cinema. E questo è probabilmente l’unico aspetto positivo della faccenda”. Nell’ultimo periodo della sua vita (verrà stroncato da un tumore all’età di 53 anni il 10 novembre 1982), il regista, si trova stretto in un vicolo cieco in cui le pareti dell’incomunicabilità da un lato e della paura della morte dall’altro, stritolano la sua ispirazione facendo emergere solo il malessere e la sofferenza dell’artista. Ecco allora che il cinema deve prendere strade diverse: non più metafora ma analisi esistenziale, non più dinamismo della messa in scena ma staticità (debordante del primo piano), non più ricerca del successo ma riflessione disordinata e ghignante su uno spettacolo privato, come è quello della vita di coppia. Il film Buone Notizie, o meglio, come recita il titolo alternativo, La Personalità della Vittima, diretto nel 1979 è un film-testamento, in cui malattia, depressione, senso di inadeguatezza e paura della morte, si sovrappongono e si traslano, passando dalla mente dell’autore alla pellicola impressionata.

L’insuccesso e le feroci critiche dei colleghi durante le Giornate del Cinema Veneziano del 1973 (il Festival venne temporaneamente abolito e le proiezioni vennero fatte in piazza e con carattere pubblico) per il film La Proprietà non è più un furto e il susseguente fallimento dell’apologo politico e profetico (Moro viene ucciso nel finale del film) Todo Modo del 1976, provocano in Petri una profonda disillusione verso le potenzialità espressive e comunicative del mezzo cinematografico, portandolo all’esasperazione del pessimismo (da sempre presente nel suo cinema) e ad una visione della realtà sempre più astratta e metafisica in cui l’unica risposta possibile sembra essere quella dell’abbandono alla follia. Questa ricerca trova compimento nel film Buone Notizie in cui attraverso un umorismo macabro e mortifero, una recitazione nevrotica e sovraeccitata ed un’esasperazione cromatica e pittorica, il regista tende a raffigurare la condizione assurda dell’essere umano, imprigionato nella gabbia del benessere e anestetizzato nei sentimenti. La nevrosi sessuale, la ritrosia verso la responsabilità, l’assuefazione alla violenza e la ricerca di un comportamento infantile, convivono in un paesaggio urbano sommerso dalla sporcizia, squassato dall’urlo delle sirene, percorso da un’infinità di schermi televisivi, dando vita ad una apologo sociale e morale sul processo, irreversibile, di autodistruzione che ha contaminato la società. Le “buone notizie” del titolo, sono evidentemente la cornice ghignante e stridente in cui è raffigurato il cittadino-medio: notizie di morte, di attentati, di allarmi bomba, di animali morti a causa dell’inquinamento; immagini di funerali, di cadaveri, di animali sgozzati e dei bambini del Biafra; racconti di violenze politiche, familiari e sociali, espresse tutte e indifferentemente dal volto sorridente della presentatrice del telegiornale. Ella racconta con distacco e con cinismo storie torbide e violente, incorniciate in immagini frigide, in una coazione a ripetere che non ammette stacchi, destabilizzando il cervello dello spettatore, minacciandone la sanità mentale, per immergerlo in una confusione (anche dei ruoli) che è totale, con l’intento di stimolarne la paura per indurlo a limitare la propria libertà e a consumare di più. Per questo durante la colazione, l’uomo rivolto alla moglie afferma: “Io non capisco perché cazzo noi due continuiamo a stare insieme. Figli non ne vogliamo per non mettere al mondo altri infelici. Rapporti sessuali…squallidi e casuali. Sussiste soltanto il problema di come spartirci i beni materiali, perché sono dispari: tre, frigorifero, televisore e giradischi”. Nell’identificazione dei tre simboli del benessere, cioè cibo, immagini e divertimento, come unico elemento di unione tra i coniugi, c’è l’evidente volontà del regista di mettere in mostra l’incapacità dell’uomo nel razionalizzare quanto sta accadendo. Buone Notizie è un film ferocemente pessimista dipinto come un affresco ambiguo e surreale (debitore del cinema di Buñuel) ambientato in una Roma irriconoscibile, minacciosa e decadente, straziata e violentata dal consumismo i cui resti immondi marciscono ai piedi di monumenti millenari e popolata da una serie di personaggi nevrotici che si esprimono con un linguaggio frantumato e incomprensibile, pervaso da una vena di malinconico sarcasmo.

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Un anonimo funzionario (Giancarlo Giannini) di una società televisiva romana, sposato con l’insegnante Fedora (Angela Molina), trascorre le sue ore di lavoro guardando i sei televisori installati nel suo ufficio, che trasmettono soltanto notizie di attentati e disgrazie varie, e affliggendosi per il suo scarso successo con le donne. Un giorno ritrova, dopo quindici anni, un vecchio amico Gualtiero Milano (Paolo Bonacelli). L’uomo è convinto di avere alle calcagna nemici misteriosi decisi ad ucciderlo. Dopo un incontro con Ada (Aurore Clement), la moglie di Gualtiero, l’uomo a malincuore convince l’amico a farsi ricoverare in una clinica per la cura delle malattie nervose, ed è proprio lì dentro che Gualtiero viene ucciso.

Il protagonista è senza nome, perchè è un archetipo, un cittadino comune, uno oscuro funzionario televisivo, di cui non si capisce, neanche troppo bene quale sia il suo compito: un uomo seduto davanti ai suoi televisori, che a fatica mantiene la sua autonomia di robot professionale, ma anche un dipendente confuso, intriso di paure (del buio, del sesso), alla costante ricerca di un angolo di tranquillità (rappresentato dal tramonto). Un uomo, ossessionato dal tempo che passa e terrorizzato dalla possibilità di morire, evocata sin dalle prime inquadrature, quando durante il black-out dice: “Guarda qua, sembra una tomba, un sepolcro…”. Nel suo ufficio sulla parete di destra c’è Guernica, il quadro di Pablo Picasso simbolo dell’orrore provocato dalla guerra, ma egli è vittima-colpevole di una società che si autodivora, senza lasciare più spazio né ai sentimenti né alle relazioni umane, ecco perché, ritiene pazzo, l’amico Gualtiero, che ripresentandosi dopo quindici anni gli confessa che qualcuno vuole ucciderlo. Senza cercare di capire le ragioni di questa sua preoccupazione egli opta tacitamente per la scelta decisa dalla moglie: Gualtiero è pazzo, dunque bisogna rinchiuderlo in una clinica. Il funzionario abbozza una relazione con la moglie di Gualtiero, destinata a naufragare in un amplesso incompiuto a causa dei pensieri che animano entrambi: il giudizio (“ma guarda cosa sta facendo questa troia”) e l’ossessione per il corpo pulito e perfetto (“avrà il tartaro sui denti, guarda quanti peli ha nel naso”, dice lei), sono i prodotti derivativi della pubblicità che annullano e cancellano la passione così come l’ebbrezza del tradimento. Tutto ormai è diventato troppo asettico per essere comprensibile, anche nei rapporti privati, in attesa della puntuale (forse evocata) “buona notizia”: Gualtiero è morto e il telegiornale mostra la ricostruzione dell’ipotetico percorso dell’assassino.

Ma la vera ossessione, e tabù dell’uomo moderno, è ancora quella del sesso, così come esplicato dalla domanda posta dal funzionario alla sua collega Tignetti, invitata ad esprimere un giudizio sul suo membro, e poi interrogata: “Io, Tignetti, prima di morire vorrei solo sapere perchè non piaccio alle donne”, mentre l’uso disinvolto e consuetudinario della volgarità è una necessità per apparire forti e per difendersi dal giudizio degli altri, per allontanare da sé ogni debolezza e ogni emozione: “Ho bisogno della trivialità… per difendermi…forse…dalla spiritualità”. Il finale del film, è ancora pieno di domande, che compaiono sotto forma di biglietti, contenuti in una busta: biglietti mortuari, su cui è scritto “Da non aprire”. All’orrore quotidiano dunque, nella visione di Petri, non c’è fine: l’uomo moderno è sprofondato in un abisso di mercificazione che non risparmia niente e nessuno, e quei biglietti, con su scritto “Da non aprire” appaiono tanto gli antenati delle mail o degli sms, cioè dell’incomunicabilità eletta a sistema di vita, della mancanza di contatto fisico e vocale come forma di autodifesa e de-responsabilizzazione. Forse l’unica risposta possibile è quella della follia di Gualtiero, un romantico capace di coinvolgere l’amico in un valzer improvvisato e scoordinato (in una scena struggente e malinconica) ballato sull’orlo dell’abisso, mentre in una frase sintetica e profonda afferma la verità che più nessuno vuole sentire: “Noi crediamo di continuare a ballare, invece strisciamo… come vermi”.

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Buone Notizie, film-testamento di Elio Petri, contiene città sommerse dalla spazzatura, una volgarità dilagante ed esibita, un susseguirsi di episodi di cronaca nera, l’acuirsi dell’insicurezza delle persone, i continui allarmi-bomba (con cui viene puntualmente evacuato il palazzo della tv), una famiglia disgregata e assente, l’incomunicabilità eletta a sistema di vita, la ricostruzione televisiva di fatti di sangue: sembra girato in questi giorni, in realtà Petri, come tutti i grandi aveva già capito tutto prima che tutto accadesse. Buone Notizie è un film dimenticato, sottovalutato e maltrattato dalla critica, irreperibile (se non per una vecchia registrazione satellitare), appartiene di diritto a quelle opere in grado di dividere il pubblico, di suscitare il dibattito, di interrogare (criticamente) lo spettatore. Un cinema, rischioso e provocatorio, di cui ci sarebbe assoluto bisogno, compresso in un film che ad una prima visione può sembrare approssimativo, e sovraeccitato, ma che in realtà è una delle più lucide analisi di una società al collasso, mentre l’asfissia si sta ancora diffondendo.

Fabrizio Fogliato

Le citazioni di Elio Petri sono tratte dal documentario Elio Petri. Appunti su un autore di Federico Bacci, Nicola Guarneri, Stefano Leone, Italia 2005

Buone notizie
(Italia/1979)
Regia, soggetto, sceneggiatura: Elio Petri
Direttore della Fotografia: Gigi Kuveiller
Scenografia: Amedeo Fago, Franco Velchi Pellecchia
Costumi:Barbara Mastroianni
Montaggio: Ruggero Mastroianni
Musiche: Ennio Morricone
Produzione: Elio Petri e Giancarlo Giannini
Interpreti principali: Giancarlo Giannin, Angela Molina, Aurore Clement, 
Paolo Bonacelli, Ombretta Colli, Ninetto Davoli
110′

Immagini da www.eliopetri.net

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“Buone notizie”: il testamento-profezia di Elio Petri

Diego Mondella

todo_modo(dal libro L’ultima trovata. Trent’anni di cinema senza Elio Petri, a cura di Diego Mondella, Pendragon, 2012)

«Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo? No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi».
(Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari)

«Un uomo, che nel film non ha nome, lavora alla televisione. Passa la giornata davanti a sei televisioni, che gli rimandano, verosimilmente, tutti i programmi previsti per le prossime ore. Qual è il suo lavoro? Il film non lo dice. È addetto a un controllo tecnico dei materiali? Non è indispensabile saperlo. Quanti, alla televisione, non lo sanno?» (Tassone 1980, p. 282). Un protagonista anonimo (Giancarlo Giannini), con un lavoro non meglio specificato, è calato in una dimensione virtuale di immagini funeste e funeree. In una sorta di visione pre-apocalittica che riflette il presente (siamo nel 1979) e preannuncia il futuro mondo globalizzato: «Un sogno che, rivisto anche oggi, sa essere incubo e caricatura ad un tempo. Come forse è il mondo in cui viviamo e di cui Elio soffriva: uno squallore in maschera» (Rondi 1983, p. 90). Che ora (ma già allora) si presenta, purtroppo, come una realtà irreversibile, dove non c’è alcuna possibilità di salvezza.

Se Todo modo aveva anticipato lo sfaldamento del sistema politico nostrano e dei rapporti di potere ad esso connessi, Buone notizie prosegue la sua amara profezia-riflessione sul declino morale, culturale e perfino sentimentale che attanaglia l’Italia e gli italiani. Sempre sotto il segno della metafora – e, questa volta, anche della «invettiva» (Valmarana 1980, p. 56). Impietosa, violenta, delirante. A tratti, metafisica.

[…] Il cumulo di immondizia che fa da scenografia all’ultima sequenza di Todo modo in cui “M.” si fa sparare dal proprio autista, qui lo ritroviamo in ogni angolo di Roma e non solo (i resti urbani invadono anche le spiagge del litorale). Sacchi di plastica neri colmi di spazzatura, e cartacce di ogni genere inondano strade, marciapiedi, parchi pubblici. I personaggi si muovono come marionette in un mondo ormai intasato. Il rifiuto, anche escrementizio, identifica un consesso sociale alla deriva. Nel “cimitero a cielo aperto” della città capita di trovare anche “avanzi” umani: il cadavere (?) di un uomo riverso in una fontana secca. Il fetore di morte e di generale disfacimento che emanava da ogni inquadratura del film precedente qui acquista piena concretezza e materialità. Il disordine impera come unica categoria del reale. Lo stato di entropia che avviluppa l’essere umano concede soltanto frammenti di identità, scampoli di verità. Tutto il resto è confusione, apparenza. Menzogna e mistificazione. La capitale è una giungla senza quartiere che si mostra in tutto il suo fetido degrado: episodi di una violenza e aggressività incontrollabili (che contagia anche i cani); inquinamento acustico onnipresente (furoreggiano rumori di sirene e di clacson di automobilisti imbestialiti); infine, sesso e droga consumati liberamente, senza inibizioni.

Un’istantanea non troppo lontana dall’oggi, che il regista ci restituisce con raffreddato sarcasmo e filtrata dal suo gusto per l’iperbole e per la rappresentazione iperrealistica. Chi avrebbe mai immaginato, un giorno, di abitare in metropoli al limite dell’invivibilità, in roccaforti video-sorvegliate in cui diffidenza e sospetto la fanno da padrone?
Il miglior amico di gioventù del protagonista si guarda sempre intorno per paura di essere pedinato, vede ombre dappertutto, sente che qualcuno lo vuole ammazzare. La moglie Ada dice che si è sparato da solo nel cappotto (l’uomo porta sempre con sé una pistola) e che ha licenziato la domestica perché credeva fosse una spia: la paranoia eletta a modus vivendi, come in un romanzo di fantascienza di Philip Dick. L’istinto animalesco alla difesa “uguale a” unico antidoto all’indifferenza. Mentre l’ironia macabra salva il cervello dal deragliamento della follia: «Non vedo l’ora di farmi un elettroshock!» ‒ dice il presunto psicotico.

[…] In una storia in cui dominano gli interrogativi senza risposta e, come in Todo modo1di nuovo gli intrighi occulti (perché l’amico è stato ucciso? E da chi?), il finale assomiglia ad un vero e proprio rebus. Il funzionario televisivo riceve una busta dal defunto Gualtiero che, al suo interno, contiene altre buste con sopra scritto “Da non aprire”. Ma che cosa significa? Quale altro inconfessabile segreto si nasconde nella vita di questo professore ebreo dalle manie persecutorie? In quella busta c’è forse racchiusa qualche verità che è meglio non rivelare? La miriade di bigliettini con su stampata la medesima frase, che l’anonimo protagonista si affanna a raccogliere in mezzo al prato, semplicemente, non comunicano nulla. Sono piuttosto i segni di un circuito di comunicazione interrotto, chiuso, regolato ormai solamente dall’astrazione e dall’assurdo. Non c’è bisogno di aprire quelle buste con tanta avidità (l’uomo le strappa con i denti), non c’è bisogno di cercare, tanto non c’è niente da sapere.

Forse, perché ha già detto tutto la televisione. Perfino la morte di Gualtiero, avvenuta in una clinica della Roma bene, viene diffusa dalla tv. Con una ricostruzione dettagliata e “invadente” della dinamica del delitto (le telecamere si spingono fino alla stanza dell’assassinato e indugiano sulla vedova intervistata dai giornalisti), che non può non ricordarci certi metodi selvaggi con cui si fa informazione oggi in materia di cronaca nera. E non è un caso che questa sia l’ultima notizia diffusa (alla fine i sei monitor dell’ufficio non trasmettono più alcuna immagine). Quasi che con la scomparsa del professore finisca un incubo, che la stessa tv ha contribuito a mettere in scena, a fabbricare come un «pseudo-evento»2e ad alimentare. Lo scibile umano, condensato in frammenti di storie, passa attraverso i telegiornali.

Ecco dunque che il mezzo televisivo non fa da semplice sfondo al racconto, ma diventa per il protagonista referente privilegiato. Fonte di realtà, o meglio, di spettacolo. Uno spettacolo fittizio e “compensativo”, «che la società preordina, programma, elabora per darti l’impressione che tu vivi, mentre tu non vivi più da molto tempo» (Tassone 1980, ibidem). Fonte anche di vita, poiché il funzionario sembra non possa fare a meno del piccolo schermo e delle sue agghiaccianti immagini (mugugna infatti quando i dipendenti dell’azienda proclamano uno sciopero e la programmazione viene sospesa). Paradossalmente, perché la mole di news che apprende quotidianamente è terrificante. Come una sorta di vampiro, l’uomo “succhia” quindi morte per nutrire la propria grigia e banale esistenza.

[…] Gli imperturbabili presentatori del tg, con cinico distacco, dispensano notizie di allarmi bomba (in apertura e chiusura il palazzo della tv viene fatto evacuare a seguito di una telefonata anonima), di blackout, di attentati terroristici (perfino contro una clinica ginecologica!), di uccisioni o funerali di uomini politici e magistrati. E ancora: di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, di decessi dovuti a misteriosi virus, di guerre, di bambini del Biafra, di catastrofi naturali, di crisi economiche, di crescita dell’inflazione, della disoccupazione e dei consumi, o infine, di aumento delle tariffe energetiche e della benzina. E il dirigente-utente è l’emblema di questa «iper-visione televisiva» (Colombo 1976), che è caratterizzata dalla trasmissione delle immagini, dalla loro continuità, dall’indifferenza tra immagine e immagine dovuta alla suggestione dello schermo acceso e definita comeossessione visiva.

[…] I tempi sempre uguali del lavoro e della famiglia sono entrambi scanditi dal medium televisivo, dalla sua narrazione statica, univoca e impersonale. Che “seduce” e, al tempo stesso, anestetizza le emozioni, immergendo l’uomo in un regime di assuefazione senza sbocco. Ciò che racconta la televisione finisce con l’essere un surrogato della realtà e, pertanto, una vera e propria religione:  «Tutti ammazzano e noi no… tutti rubano e noi no… tutti fottono e noi no… tutti si drogano e noi no…» ‒ dice il protagonista, chiedendo il perché alla moglie Fedora. Questo dimostra come l’iper-bombardamento a cui è sottoposto lo spettatore porti all’atonia, ad un’assenza di contatto con il mondo reale, per cui ci si trova privati di esperienze nostre ed in balìa delle esperienze di seconda mano che ci propina la tv. Con il risultato che il soggetto teledipendente degenera in un «essere dissociato, in un io nevrotico» (Sartori 2000, p. 145).

Molte delle tragedie che apprendiamo nel film appartengono verosimilmente all’epoca in cui fu girato e, con molta probabilità, sono il frutto (marcio) della famigerata “strategia della tensione”; ad esempio, riguardo agli attentati, il Paese era realmente scosso da cruenti episodi di terrorismo, culminati poi con l’assassinio di Aldo Moro nel maggio 1978. Oggi, facendo un rapido zapping sui tg degli innumerevoli canali a nostra disposizione, ci appare del tutto normale ascoltare notizie dal crescente contenuto negativo e, per il telespettatore, angosciante. Eppure, più di trent’anni fa (quindi in tempi in cui l’informazione non era ancora così espansa e pressante), Petri aveva intuito quali erano le potenzialità della tv, come mezzo per ricercare il consenso delle masse e condizionarne il pensiero. Aveva già capito, insomma, che questa scatola elettronica «pervade tutta la nostra vita e si afferma come un demiurgo» (ivi, p. 39), ma soprattutto, che è «un formidabile formatore di opinione» (ivi, p. 40).

[…] Sul finire degli anni Settanta, comunque, la paura era vissuta come un sentimento autentico, poiché il clima di tensione era palpabile nell’aria; i cittadini temevano per la propria vita in quanto rischiavano tutti i giorni di essere coinvolti indirettamente in qualche fatto di sangue. Anche adesso che viviamo in una società globalizzata i pericoli e le insidie sono dietro ogni angolo, ma c’è uno scarto significativo fra ciò che davvero genera paura e la percezione che invece ne abbiamo perché manipolata e amplificata dalla tv. Il nostro autore, pur concedendosi a volte licenze di estrema visionarietà, possiede comunque lo sguardo lucido per registrare “chirurgicamente” una mutazione linguistica della comunicazione televisiva che si sarebbe verificata soltanto nei decenni successivi. Ovvero, il lavoro di costruzione di una diversa realtà (parallela a quella oggettiva), messo in atto facendo leva più su reazioni e pulsioni emozionali del pubblico che su doti intellettive dello stesso: il medium televisivo si fa portatore di messaggi “caldi” che eccitano i sensi, appassionano e, soprattutto, impressionano. Ecco che il “terrorismo mediatico” è servito. Petri, con straordinario anticipo rispetto ai tempi, capisce insomma che tutti i rapporti sono distorti da un’invasione di oggetti, da un effetto di proliferazione e saturazione di immagini, da una mancanza di spazio. Che la realtà, la cultura, il linguaggio sono bloccati, senza speranza, in un groviglio densissimo e inestricabile. “L’immaginario” non fa in tempo ad assistere (impotente) alle sue esequie, che la tv ha già pensato a scavargli la tomba…

Note

1. «Ha importanza sapere se “M.” sia rapito dalla CIA, o dal SID, o da un servizio segreto tedesco o francese? Ha importanza sapere se lo chauffeur sia l’unico assassino, se non abbia altri complici, se don Gaetano sia al corrente della verità?  […] Bisogna rendersi conto, prima di dare una risposta a questi interrogativi, che gli interrogativi sono assurdi. […] Gli interrogativi sono folli, com’è folle la realtà da cui nascono, una realtà basata sulla divisione, sulla malattia» (Gili  1987, pp. 171-72). 

2. Il concetto di «pseudo-evento», espresso da Sartori (2000), si può riallacciare al discorso che Derrida (1997, pp. 45-60) fa a proposito dell’«artefattualità», ovvero l’attualità artefatta che «giunge a noi attraverso una fattura finta», l’evento appunto creato ad hoc per e dalla televisione. Una “strategia” di informazione che si basa su un processo di selezione delle notizie, vagliate da dispositivi tecnici e politici, e che risponde in prima istanza all’imperativo del mercato e cioè dell’audience. 

Bibliografia

Colombo F. (1976): Ipertelevision, Coop. Scrittori, Roma

Derrida J., Stiegler B. (1997): Ecografie della televisione, Raffaello Cortina Editore, Milano

Gili J. A., a cura di (1987) Elio Petri. Scritti di cinema e di vita, Bulzoni, Roma

Rondi G. L. (1983): Buone notizie, in U. Pirro (a cura di), Elio Petri, catalogo Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (Palazzo del Cinema, 31 agosto – 11 settembre), RAI-ERI, («La Biennale di Venezia»), Venezia

Sartori G. (2000): Homo videns: televisione e post-pensiero, Laterza, Bari

Tassone A. (1980), Parla il cinema italiano, vol. II, Il Formichiere, Milano

Valmarana P. (1980): Buone notizie, «La Rivista del Cinematografo», n. 1-2

Filmografia

Buone notizie (Elio Petri 1979)

Todo modo (Elio Petri 1976)

Ringrazio gli autori di queste acute riflessioni, pur non avendoli mai visti e mi approprio dei loro pensieri, come è giusto che sia, essendo la rete una banca comunitaria di informazioni utili a chiunque ne voglia far uso, liberamente e con occhio critico. Per quello che riguarda il film, guardatelo, è un elogio della psicosi, tutti in questo film siamo il protagonista, perché Giannini porta alle estreme conseguenze reali ogni nostro atteggiamento tenuto a bada dal buon senso.

Giovanni Sacchitelli

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