È diverso, il vento, quest’anno: è selvaggio, furibondo, lancia strali che cadono dalle chiome degli alberi sotto forma di aghi di pino, a formare un tappeto pungente, ispido; un prato marrone sul quale non è piacevole camminare a piedi nudi, non regala quella rinfrescante sensazione di libertà: piuttosto, ti fa sembrare un fachiro fuori allenamento.
Vorrà dire qualcosa.
Il momento in cui chiudo la villa, negli anni, è sempre stato accompagnato da un vento che ha un rumore inconfondibile, lieve, che soffia da terra portando con sé le storie degli uliveti che ha attraversato, quelle di pietra dei paesi della Valle d’Itria, che d’estate si trasformano nel baricentro del mondo conosciuto. Ho imparato a riconoscerlo, quel vento: inizia a muoversi di soppiatto, senza quasi annunciarsi, nelle prime ore del pomeriggio, dopo che sono tornato dalla spiaggia, dall’ultimo tuffo della stagione. C’è stata anche un’epoca in cui chiudevo in fretta e furia per poter rientrare a Bari in tempo per varcare i cancelli dello stadio, con qualche attimo di anticipo sulla prima di campionato. Era il periodo in cui il calcio, per me, contava qualcosa: aveva ancora la dignità di sport, di un momento di aggregazione durante il quale provare emozioni. C’era lo stadio – prima con mio padre e mio fratello, più in là negli anni con gli amici – e c’erano tutti i riti collettivi che si mettevano in pratica in trentamila, nello stesso posto e nello stesso momento: non dispersi a tutte le ore davanti a schermi ad altissima definizione, su cui i tatuaggi dei calciatori contano più della traiettoria stessa del pallone.
Quel tempo è passato da decenni, ormai, ma il vento non è cambiato: che sia la prima di campionato o il primo giorno di lavoro, a portarmi via da quella casa, lui è sempre stato lì a salutarmi, con lo stesso suono – quasi una melodia – dolce e velato di malinconia.
Ma non oggi: questa tramontana furiosa ha iniziato a imperversare da stanotte, schiaffeggiando il mare in onde alte quanto cavalli, e accompagnando il buio con un rumoreggiare inquietante – come ululati alla luna piena – e adesso che c’è la luce del giorno mi caccia in anticipo, mi esorta a lasciar perdere la mattinata in spiaggia, ché non ne vale la pena, che il mare rigonfio se la sarà mangiata palmo a palmo, affamato di sabbia, di posti dove piantare ombrelloni o stendere teli.
È così che si congeda questa estate che non è mai iniziata, che mi congedo da questa villa che, per anni, è stata il mio angolo preferito di mondo: con il rancore di due vecchi amici che abbiano litigato per una donna, con l’astio del tradimento a urlarsi improperi attraverso la voce delle folate.

Testo e fotografia di Manlio Ranieri

 

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