Dreamers
Quella frenesia arrotolata sottobraccio nel quotidiano del 1915, le scarpe di plastica e attack consumate a sinistra sulle figlie croccanti dell’autunno, occhi selettivi persi in un cappello rosso, sotto i cappucci della gente, lungo le rampe fatte male, tra gli odori di fritto e spazzatura e i passanti con le mani in tasca, le code buffe dei cani, le cose che finiscono ai lati delle strade prima dello spazzino, prima del vento o delle narici dei tombini… all’epoca scorrevo come adesso, nonostante la dittatura del mercoledì e il tritolo nelle vene. Scorrevo come adesso ma in una soluzione diversa: più densa e sola e cattiva.
Scorrevo come adesso ma chiusa in una scatola più piccola.
E avevo fatto due piccoli buchi col taglierino, iniziando così a conoscere il mondo e le persone: da una scatola ingombra che non sapevo aprire. E come adesso tutto l’incomunicabile finiva nel nero di seppia. Volevo dire tante cose che oggi affido a te, ieri al muto macero della memoria. Il rossetto rosso sbavato e un vestito color caos: la prima volta alla stazione. Un settembre vero di inizio e fine. Gli occhi accesi e uno spirito catodico di ricerca. La miccia i fiammiferi enormi spazi.
C’erano i libri nella testa e l’alba dei colori vivaci.
Qualche metro obliquo tra le nostre stanze, le porte bianche chiuse per la mente assorta. Due universi attigui giustapposti nello scarabeo del caso. Il mio personalissimo Fontana: il primo vero squarcio. L’ombrello al chiuso, il riso sul balcone, la casa piena di fumo, quei discorsi che fanno il giro senza arrivare e un gorgo passione in comune. “Anche tu?” “E come?” Le tue braccia aperte. Poi c’è stato un lago, qualche concerto, dopo che hai fatto saltare il mio tappo di china indurita. E sempre da anni quel non perdersi, ritrovandoci un po’ più immense e piene, amando il modo in cui sai ridere e cucire ali sulle schiene di chi si guarda le scarpe. Ed ero un gatto degli angoli, pronto a infilarsi nei motori spenti al primo rumore. Dopo tutto quel chiasso che ti ho raccontato di notte, nella piccola cucina comune. La scoperta dello zenzero e dell’arte di vivere.
Il tuo entusiasmo lanterna, quel prendermi la mano trovandomi dentro l’arcobaleno.
Non sapevo che ci fosse, in una specie di buio sferico.
Ma il nero non esiste in natura, in qualche modo me l’hai insegnato tu. E vado benissimo come sono, di piume, briciole e picconi. E saperlo già che “bisogna essere pazzi, non sognatori” ma finalmente condividerlo. Non è forse un vero e proprio miracolo?
Raro come la verità e il valerne la pena.
Quanto può essere casa un luogo umano?
E anche albergo e paesaggio di campagna?
Scrivo per te e tramite te.
Schiudendomi umilmente al mondo.
E se tu non ci fossi stata quanti quaderni a righe avrei riempito?
In quale soffitta sarebbero andati a morire?
Grazie di questi piccoli stormi che hai inventato. Grazie del volo. Grazie dei colori.
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