Né i marmi, né dei prìncipi dorate l’effigi hanno potere di poesia

William Shakespeare

 

Né i marmi, né dei prìncipi dorate
l’effigi hanno potere di poesia:
maggiore luce a te nei versi sia,
che in pietre antiche, turpi d’anni grigi.
Odiosa guerra scalzerà la statua,
le mura periranno ad un tumulto:
ardere non saprà il tuo vivo culto
spada di marte, con sua fiamma fatua.
Contro la morte, contro ingrato oblio
tu durerai; la tua virtù sia nota
all’uomo che farà girar la ruota
della fortuna, e così piaccia a dio.
finché la tromba del giudizio canti,
vivrai nei versi agli occhi degli amanti.

Sonetto LV

 

Quanto più bella appare una bellezza
quando s’adorna d’una vita piena:
bella la rosa, e più bella s’apprezza
per quel dolce profumo che l’invena.
Rosa canina ha fiamma d’ugual fuoco
quant’è nel fior di serra, più odoroso:
pari le spine, pari il lieto gioco
d’alito estivo al bocciolo ritroso.
Rosa di campo è bella né pregiata,
vien disamata in boccio, umile in fiore,
sfiorisce a sé. La rosa coltivata
muore soave in suo soave odore:
così di te, giovane bell’amica,
sfiorito il boccio, la poesia ridica.

Sonetto LIV

 

E come l’onda al sasso sulla rena,
così va la risacca degli istanti:
poi che ogni primo il suo secondo mena,
precìpite teoria che corre avanti.
Creatura pur venuta a luce, lesta
si fa matura, in più pieno splendore;
ma il sole eclissa – insidia già funesta,
e il tempo dona e toglie, traditore.
Trafigge il tempo i fiori del passato,
spinge l’aratro sulle fronti liete,
si nutre del fior fiore che ha creato,
né si dà scampo, quando falce miete.
Pure, al futuro lascio questo canto:
possa, vincendo il tempo, esserti vanto.

Sonetto LX

 

Amore sembra febbre, che ha più brame
di quel che più gl’insinua l’insanìa,
più gode di più lunga malattia
che all’egro allegra la pur magra fame.
Al raziocinio, medico d’ambascia
che offendo, inadempiente alla sua dieta,
mostro – meschino! – quel che lui mi vieta:
desiderare uccide; e lui mi lascia.
Incurato dal senno noncurante,
inquieto sempre e folle, anzi frenetico,
io penso e parlo come in un palletico
fuorviando dal vero ch’è lampante:
chiara ti chiamo, ti lusingo luce,
che sei tetro demonio e notte truce.

Sonetto CXLVII

William Shakespeare

 

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