Il bambino azzurro in Sud America
Gente in fiumi che scorre seguendo i cartelli, sulle scale mobili, lungo le vie del centro città. Pensava ai vermi gialli e vorticosi nello scatole verde a forma di cilindro, bucherellato sul coperchio, con il manico bianco di plastica sottile che aveva riparato milioni di volte. Lo scatolo di quando andava a pesca sul porto con suo padre, in un’altra vita. I vermi gialli che puzzano di morte, ma che per lui erano l’essenza stessa della vita. Quel loro mischiarsi osceno e schiumoso, d’ammoniaca e disperazione, solo per essere trafitti dall’ardiglione e finire nello stomaco di un’occhiata. Quelle estati che ardevano le labbra e sporcavano le dita. Adesso restava sui gradini a guardare tutti quei grossi vermi colorati che non sarebbero stati l’olocausto per la cena e non si vendevano all’etto da Michele. Michele con le unghie nere, l’alito cattivo e un cuore immenso. Era così piccolo all’epoca. Oggi ha vissuto mille vite almeno. La barba lunga, il cartone del vino e una coppa del nonno vuota, con qualche spicciolo lasciato dai vermi. Non era il solito clochard con la pretesa facile: si può vivere a lungo senza pane. Non gli importava questo. Gli importava di quel moto osceno, del passeggino per cani e dei discorsi altrui, del bambino azzurro in Sud America. Le scarpe nuove, il sesso sbagliato, l’ultima borsa di prada, i pettegolezzi da ufficio, gioie e fallimenti dalla camicetta alla promozione. Il libro del mondo pieno di storie scritte male. Ed è per lui, ogni giorno, un dolore insostenibile, di quelli che si possono smaltire solo con lunghissimi silenzi. E vetri rotti. Per le braccia e i cassonetti giusti. Lo stesso rumore dell’umanità che si frantuma: ogni componente a suo modo. E in mezzo ai vermi certi non inferni, di quelli da ricordare. Il vecchio con la giacca color sabbia dal taglio impeccabile e un paio di pantaloncini, curvo sul marciapiede con le gambe nude e magrissime, passi lenti d’artrite e solitudine. La ragazza riccia del buongiorno tutte le mattine, con la bocca storta e due occhi bellissimi, il randagio col naso scorticato che non guarisce e il ragazzo delle consegne sempre sudato che canticchia canzoni slave. Questi vermi erano diversi dagli altri. Gli ricordavano suo padre, Michele e la nonna. Ma riusciva ad annegare sempre in quel fiume giallo disgustoso, nonostante gli schiaffi della bellezza. Rari ma presentissimi. I piccoli vermi luminosi che soffrivano come lui. E come lui ingoiavano la rabbia, combattevano contro qualcosa di molto grande. E lui lo sentiva come i clacson improvvisi nel cuore della notte. Questa gente piena d’insulti, triste e armata. Doveva parlarci, dire loro che sapeva tutto, in qualche modo. Che la maggior parte dei vermi non capisce niente, guarda il dito e non ciò che indica. Loro, come lui, si distinguono. Sono una specie di speranza. Una specie di maledizione. L’infinito nei puntini, i buchi neri delle galassie. Questi vermi non hanno mai dimenticato. Le piccole cose, il senso delle poesie, il sapore del pane, le lacrime del mondo e tutti i sorrisi. Sono, come lui, bambini azzurri in Sud America. Si sforza di riconoscerli, trovarli. In mezzo a tutti i vermi. Lo fa perché l’azzurro, come il Sud America, è davvero troppo grande. Lo fa perché non vuole sentirsi solo.
Non è solo e, ogni giorno, deve ricordarselo.
Delia Cardinale