Common sense
Siamo abituati ad un tipo di fotografia d’autore che carpisca i momenti più significativi (come il momento decisivo di Cartier-Bresson) come un bacio, l’amore su un ponte (vedi Le baiser du Pont Neuf, Robert Doisneau 1950) i lineamenti severi di un anziano, gli orrori della guerra, gli scrittori (o le attrici, come la splendida Juliette Binoche nelle foto di Robert Doisneau nel 1991), la fotografia di paesaggio; tutto ciò è nell’immaginario collettivo il ruolo classico della fotografia, ovvero il raccogliere quegli scatti più esemplificativi di qualcosa che vogliamo narrare. Ho già parlato in precedenza (vedi il mio articolo John Batho) del ruolo dell’arte come conservatrice di ciò che è in disgregazione, del suo ruolo quasi messianico. La fotografia, com’è ovvio, rientra in questo progetto generale di protezione, di mantenimento di ciò che è importante preservare dallo scorrere del tempo. Come la pittura, così la fotografia cattura nel suo obiettivo fotografico fa sue e rielabora l’eterogeneo susseguirsi di idee che passano davanti alla mente del reporter. Ci si aspetta quindi un soggetto nobile alla base dell’opera dei fotografi. Le modelle dal corpo perfetto di Helmut Newton, lo stesso Bowie ripreso da svariati fotografi (Norman Parkinson, Terry O’Neill, Masayoshi Sukita, Kansai Yamamoto), gli innamorati della Paris de nuit di Brassai, la Sicilia severa di Ferdinando Scianna (e la sua melanconica Marpessa), i nudi perlacei di Franco Fontana e i suoi paesaggi minimali. Steve McCurry e la sua India piena di colori, il servizio fotografico realizzato a Roma negli anni novanta (Villa Borghese), Robert Capa con i suoi primi scatti a colori negli anni cinquanta. Oliviero Toscani e i suoi colori per la moda Benetton che abbiamo incorporato nel nostro mondo interiore, dimenticandoci la sua fonte originale.
Il Mondo della fotografia quasi sempre ha come oggetti (come soggetti meglio dire) qualcosa di elevato, di memorabile, di romantico. Sono pochi quelli che hanno trasformato cose e persone di ogni giorno, senza filtri o effetti fotografici particolari in opere d’arte. Tra questi figurano gli americani di William Eggleston, Stephen Shore; il primo, ad esempio, ha fatto di un incrocio o di una pompa di benzina qualcosa di memorabile. Una rivoluzione. Non è necessario avere soggetti come Asia Argento (servizio fotografico realizzato a Procida, 1997, Ferdinando Scianna) o la laguna di Venezia amore di Fulvio Roiter (Venezia, Piazza San Marco, 1980) e di Gianni Berengo Gardin (Ponte dei Sospiri, Venezia, 1956). Ciò che è di tutti i giorni diventa memorabile. Eggleston e Shore avevano ripreso l’America degli anni 70, se procediamo più avanti nel tempo abbiamo un lavoro simile di rivalutazione dell’ovvio e del consueto (che poi paradossalmente è la base della creazione artistica, basti pensare agli oggetti di Giorgio Morandi o le natura morte di Van Gogh o semplicemente sedia con libri inserire nome dipinto). La realtà che ci circonda, quella che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, quella volgare, banale, grottesca, incomprensibile è la base della creazione artistica, di qualunque sorta essa sia. Anche lo stesso Van Gogh in una lettera a Theo (lettere a Theo, una miniera di filosofia) parla del rapporto tra arte e cose di ogni giorno, dicendo che se non fosse per l’arte non riuscirebbe a vivere la realtà prosaica che lo circonda e non troverebbe il coraggio di viverla in maniera più serena. La realtà è quella sudaticcia e impiastricciata delle domeniche al mare (ossimoro rispetto alla plage elegante di John Batho e della sua Deauville, oppure rispetto all’atmosfera del mare d’inverno della cote belgique di Bernard Plossu), i cibi più scadenti e ricchi di grassi, un mappamondo, i seni cadenti, le pance cadenti, gli obesi, mozziconi di sigaretta, turisti che fanno la foto mantenendo la Torre di Pisa, un’anguria, una banana. Procedendo avanti con gli anni rispetto ai maestri americani, troviamo il common sense del fotografo britannico Martin Parr (Epsom, 1966). Il nome della sua raccolta è già sintomatico del tipo di oggetto che ha voluto rappresentare e conservare. Nonostante la poca nobiltà del suo soggetto, è l’apparato di colori scelti e la gamma cromatica a rendere piacevolissime le sue foto. Un maître de couleur britannico, che tiene incollato lo sguardo al suo teatro di colori. La raccolta common sense risale al 1999, 30 anni dopo i capolavori di Eggleston-Shore, Martin Parr nella sua opera si è sempre occupato della critica alla società del consumo. Thomas Welski, in una nota sulla vita e il pensiero di Martin Parr, dice “is a chronicler of our age”, riportava la realtà prosaica di fine anni novanta, che già per certi versi preannunciava il disastro dei nostri giorni; più avanti “At first glance, his photographs seem exaggerated or even grotesque. The motifs he chooses are strange, the colours are garish and the perspectives are unusual.”, effetivamente i colori sono garish (vistosi), continua poi “Leisure, consumption and communication are the concepts that this British photographer has been researching for several decades now on his worldwide travels” I concetti base come avevo detto pocanzi, “ In the process, he examines national characteristics and international phenomena to find out how valid they are as symbols that will help future generations to understand our cultural peculiarities. Parr enables us to see things that have seemed familiar to us in a completely new way. In this way he creates his own image of society, which allows us to combine an analysis of the visible signs of globalisation with unusual visual experiences. In his photos, Parr juxtaposes specific images with universal ones without resolving the contradictions. Individual characteristics are accepted and eccentricities are treasured” (Thomas Welski).
Giovanni Sacchitelli