Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, ci pone davanti a questo quesito. È lui ad indossare gli abiti del protagonista in questo regalo per il grande pubblico incartato da Daniele Luchetti, a sua volta destinatario dello stesso dono – tutto parole e inchiostro –  da parte di Francesco Piccolo. Insomma, una sorta di matriosca Piccolo-Luchetti-Diliberto.

Pif, con la sua voce sempre più nasale, con il brizzolato dei suoi capelli e con la sua sapiente vena ironica, ancora una volta riesce a farci ridere e piangere, insieme. Senza essere mai sentimentale e smielato guardando alla vita, solo spietatamente sincero, sfornito di inutili maschere fascinose. Non sto qui a rievocare troppo i suoi precedenti lavori cinematografici – La mafia uccide solo d’estate (2013) e In guerra per amore (2016) – ma mi è naturale ripensare a questi perché nel Paolo Federici di Momenti di trascurabile felicità ho rivisto molto l’Arturo Giammarresi dei due citati sopra. Il ragazzone palermitano con l’aria scanzonata, a tratti stordito dalla vita a tratti arzillo e critico, che ci fa riflettere e sorridere nello sbaglio, lì dove non ci eravamo soffermati troppo con la testa.

E così ci ritroviamo nella pellicola di Luchetti davanti ad un uomo – un ingegnere, a voler essere puntuali –  con un aspetto tutto sommato sereno, in una mattina di sole, sul suo scooter nel centro di Palermo. C’è il sole, c’è il traffico, è una mattina come tante. Eppure, non proprio. Paolo supera un incrocio con il rosso e sbam, ci resta secco.

Rieccolo, poi, qualche gradino più in alto delle nuvole insieme a quelli che come lui attendono l’ingresso nel misterioso regno dei cieli: entra qui in scena come impiegato nell’amministrazione dell’altro mondo il grande Renato Carpentieri. L’ora e mezza di film vedrà i due inscenare esilaranti dialoghi all’insegna del E adesso che faccio? Rido? Piango? O vivo? O almeno ci provo a vivere? Questo perché Paolo si ribella al volere dell’impiegato che sta per dirlo pronto alla nuova vita. E fa bene, non a caso presto arriva l’agognata asserzione: c’è un errore!

Perché? Per le centrifughe bevute in vita, chiaro. Perché le centrifughe allo zenzero infondono buona salute. E  la salute ha un tempo, ahimè, meticolosamente scandito. In questo caso la sua durata è di appena un’ora e mezza: il tempo massimo che viene restituito a Paolo per ritornare sulla terra.

Ed è qui che, una volta rientrato, Paolo dovrà fare i conti con i momenti di trascurabile felicità. In una corsa tutta fatta d’urgenza di cose vere e persone da salutare –  tra queste prima fra tutte la moglie, interpretata dalla cantautrice Thony – con il desiderio di voler cambiare la storia, con la consapevolezza di non poterci riuscire.

Quanto era bella quella ragazza che da piccolo mi stava sempre vicino al mare, era grande, era forse solo troppo grande. Mi sa che mi bastava solo guardarla.

Ehi tu, ho voglia di baciarti, ora ora. Accarezzarti la guancia destra, stare dietro ai tuoi malumori. A volte tradirti, è successo, siamo umani, dobbiamo perdonarci o non fare più cazzate per non poterci pentire (ma essendo umani per proprietà transitiva quest’ultima possibilità risulta difficile da raggiungere).

Guardare la partita, tra birre e risate, magari insulti, e poi ancora risate. E insulti.

Ma ad esempio, succede anche così, succede che un momento felice è anche e forse soprattutto così, soltanto così:

«Se sto dormendo e suona il telefono, vado a rispondere, e se mi chiedono: «ma stavi dormendo?», dico sempre: «no».

Non so perché, ma lo faccio sempre.

Alzo la cornetta e dico «pronto» con la voce più normale possibile. Dall’altra parte la prima cosa che dice chi ha chiamato è: «ma stavi dormendo?»

«No, no. Figurati».

E poi sono capace di mentire senza alcun pudore con frasi assurde del tipo «no, stavo lavorando», oppure «sono già uscito due volte». E se proprio non ce la faccio a esagerare, dico che sto ancora a letto, sì, ma stavo pensando.

Insistono. «E come mai allora hai ancora la voce di sonno?, di’ la verità, stavi dormendo, perché menti?», e io lì a giurare su qualcosa che mi è molto caro, che non è assolutamente vero, che sono sveglio da un sacco di tempo, che la voce è così perché non ho ancora parlato con nessuno stamattina, e del resto perché dovrei mentire, che ragione ci sarebbe.

Ed è questo il punto cruciale della questione: perché mento? Che ragione c’è? Non c’è una ragione: mi piace». [1]

Del resto è uno scrittore a parlare qui, a dire la sua. E a chi piace scrivere o anche solo parlare tanto, si sa, piace mentire benevolmente. Per il gusto di farlo e basta. Che se ne fanno, d’altronde, gli scrittori della realtà. La salutano con cortesia, tutt’al più, con una qualche forma di omaggio come un baciamano nei casi più distinti, e poi si voltano verso storie che non esistono. E qui, mi piace citare un dialogo disegnato da un autore che mi ha fatto sentire meno sola nel pensarla esattamente così:

«Nel Nord America, dice Ramak senza scomporsi, l’impulso a raccontare è molto diffuso. Solo che non si riesce a raccontare senza esagerare.

È una specie di millanteria nazionale, fa Silva.

Ma senza malizia, precisa Ramak.

Sono comunque bugie, dice lei.

Sapete cos’è una tall story?, domanda lui.

Facciamo cenno di no.

Avete visto Big Fish?

Sì, rispondiamo.

Ecco, fa lui. In Big Fish, il padre è uno che racconta tall stories.

Un bugiardo, dice Silva.

Non è un bugiardo, obietta Ramak.

Be’ sì, dice lei, mente per tutto il tempo ed è quello che suo figlio non sopporta.

Non proprio, fa lui. Una tall story è una storia inverosimile.

Appunto.

Ma una storia inverosimile non è per forza una bugia. Negli Stati Uniti un uomo come quello di Big Fish si chiama larger-than life. Uno con manie di grandezza, commenta Silva.

Un esageratore, penso io, se esiste la parola, come quando da piccolo ogni graffio era una lacerazione e al posto del cerotto banalissimo pretendevo un bendaggio leggendario: perché solo così sarei riuscito a dare forma al dispiacere, a fare esperienza delle cose.

Di persone larger-than life gli Stati Uniti sono pieni, dice Ramak.

Non capisco perché non ammetti che sono bugiardi, dice Silva.

Perché non lo sono».[2]

Il bello poi – e qui c’è da divertirsi – è che la felicità e l’infelicità in orari mai prestabiliti ma del tutto casuali, si trovano a viaggiare nello stesso scompartimento del treno della vie. E se ne vedono di strane. Ci si sente abbastanza inermi davanti a determinati scarti emotivi, ma quando si palesano ignorarli diventa impossibile, ci si lascia solo attraversare. Un po’ così:

«Provo sempre una gioia enorme quando i deboli battono i forti, sul momento. Ma poi subito dopo un’enorme tristezza per i forti, che soffrono più dei deboli quando perdono»[3].

Ma che cos’è quindi, oh, la felicità? Appariscente e in ghingheri tanto quanto trasandata e inosservata? Paolo Federici non lo sa, non lo sapeva da vivo e da umano non lo capirà mai. Occorre morire allora per identificarla? Magari non è proprio il caso di arrivare a tanto. Eppure quella colazione al bar quando non c’è nessuno. Quell’incrocio da attraversare quando tutti i semafori sono rossi. Quel profumo, quella mano, quella schiena. Come li sentissimo davvero solo quando quella dimensione non ci appartiene più, sospesa in un tempo non più nostro. Parlo di noi umani, tutti carne, vene, ossa e viscere. Noi, quelli del – come ci suggerisce la colonna sonora del film – voglio vivere così, col sole in fronte.

«Le manifestazioni, quando la città è occupata da molti di coloro che la abitano. E la notte di Capodanno, quando la maggioranza dei cittadini è in strada e non nelle case. L’elenco di tutte le case che si abitano nel corso della vita. Il numero esatto dei baci che si stanno dando in questo momento. Mi piacerebbe che nessuna porta stesse sbattendo, che nessun essere umano stesse tossendo, che nemmeno un cittadino non si sentisse un cittadino; e sempre in questo momento che qualcuno stesse dicendo: però com’è bello vivere qui. Anche tra sé e sé».[4]

Io non lo so cos’è la felicità ma so che quando vedo un film come questo sono sempre un po’ felice. E allora torno a casa, dopo il cinema, e mi avvinghio a quel trascurabile momento.

Nota: Pif e Francesco Piccolo sono inoltre attualmente in tournée teatrale per tutta Italia con lo spettacolo “Momenti di trascurabile (in)felicità”.

[1] F. Piccolo (2010), Momenti di trascurabile felicità, Torino, Einaudi, pp. 23-24.

[2] G. Vasta e R. Fazel (2016), Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, Macerata, Quodlibet, p.126.

[3] F. Piccolo (2015), Momenti di trascurabile infelicità, Torino, Einaudi, p. 105.

[4] F. Piccolo (2010), Momenti di trascurabile felicità, Torino, Einaudi, p. 125.

Articolo di Antonella Pagano che ci  ha gentilmente e vivacemente contattato per proporci di pubblicare questo articolo!

Amiamo le persone così! <3

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