In evidenza: Stephen Shore, Kiev, 2012

Tutta la nostra esistenza quotidiana si svolge, salvo non siamo eremiti, tra la nostra abitazione, la strada, il lavoro, il posto di lavoro e altri luoghi (tra i quali sono compresi i cosidetti non-luoghi di cui parlava Augè). La nostra stanza, la strada, i supermercati, gli spazi pubblici (piazze, biblioteche, luoghi di culto) sono i posti in cui gli individui trascorrono il loro tempo; alcuni luoghi, più di altri, saranno fatti in modo che la funzionalità abbia il sopravvento sull’estetica, altri saranno una via mezzana, altri luoghi saranno soltanto oggetti da contemplare (come i musei, o le Chiese). Ciò che rende funzionale o meno un oggetto alla sua destinazione d’uso, fa si che esso abbia una precisa conformazione esterna (ergonomia appropriata), abbia tutto ciò che serve a fare qualcosa ed escluda altri attributi (di forma, colore, materiale, design). Ci muoviamo in un mondo esterno pieno di oggetti che hanno le funzioni più disparate, e che ingombrano spazio. Senza ombra di dubbio un diverso modo di distribuire le architetture e i luoghi di interesse sortirebbe come effetto uno stile di vita appropriato al caso; come  vivere in una città d’arte plasma il nostro animo rendendolo fine e delicato, così lavorare in un bell’ufficio ci rende più efficienti e sereni. Il discorso sul welfare, sia fuori sia dentro l’ambiente di lavoro ha ricadute inequivocabili sul benessere psico-fisico dei dipendenti; come leva motivazionale (più del salario o dei primi produzione) vale il luogo in cui siamo a fare il nostro dovere. Quanto è importante l’estetica. Il ruolo della bellezza nel benessere psico-fisico non è soltanto un qualcosa confinato al luogo del museo o dei luoghi di interesse artistico-storico  (su questo vedi filosofia del monumento) ma anche all’ambiente dell’azienda (su questo vedi un mio articolo soggetto e azienda). Come si produce meglio, lavorando nei grigi uffici kafkiani o in un ambiente pulito, moderno, i-tech, con scrivanie nuove e luccicanti?

Esiste un modo di pensare la produzione ma anche e soprattutto le cose della vita, che mira ad evitare gli sprechi, eliminando ciò che non è a valore. Questo tipo di organizzazione (aziendale) si chiama lean thinking ed è noto anche come toyota way, in quanto questa multinazionale ha per prima introdotto questo modus operandi ottenendo risultati di efficienza e qualità della produzione. La lean organizzation nasce in giappone nel 1945 ed ha come obiettivo la maggiore efficienza del processo produttivo, snellendo il flussi (attività che prevede in input di materia prima ed output di prodotto finito), eliminando tutte quelle attività superflue (non a valore) che non contribuiscono all’obiettivo finale. Nella cultura giapponese il concetto di spreco (muda) è paragonabile a quello occidentale di peccato, qualcosa dunque da non fare come trasgressione ad una regola superiore metafisica. Rispetto alle teorie classiche di organizzazione del lavoro (ford), che mirava al produrre quanto più possibile, mettendo da pare la qualità, la lean punta sulla qualità del prodotto finale ed ha una grande attenzione al consumatore. I flussi vanno quindi snelliti, i tempi morti eliminati, gli operatori non funzionali banditi. Si fanno delle mappature del processo produttivo, con attori e zone principali, per poi procedere ad uno studio approfondito e matematico delle aree di miglioramento; una parte fondamentale della filosofia lean è il gemba walk, ovvero il guardare di persona il processo produttivo, perché solo così facendo è realmente possibile implementarne i flussi. Si definisce il takt time (tempo necessario per produrre un componente). Con cronometro, matita, foglio e “buon senso”, l’esperto lean studia empiricamente (e non chiuso nella sua torre d’avorio dello studio privato) l’andamento della produzione, individuando le criticità che poi andranno aggredite, secondo metodi consolidati. Una casa va ricostruita dalle fondamenta, non si può pensare di salvare o migliorare un’azienda osservando solo il bilancio di esercizio. Lean in inglese vuol dire snella e questo termine rende bene l’idea della credenza lean. Nella cultura giapponese si intende con muda chi è disonorevole, questo termine è anche centrale nella filosofia anti-spreco lean. L’obiettivo della lean è eliminare i mura, i muda e i muri. Se ad esempio abbiamo un carico di 6 tonnellate da spostare su un camion che ne può portare solo 3 per volta e procediamo nei seguenti modi:

  • MURI = portare 6 tonnellate sul camion (sovraccarico)
  • MURA = portare 4 tonnellate su un camion e 2 tonnellate su un altro (sbilanciamento)
  • MUDA = distribuire le 6 tonnellate in tre camion, ognuno con sole 2 tonnellate (spreco)

Questo è un esempio concreto di organizzazione inefficiente, la distribuzione giusta è 2 camion con 3 tonnellate per carico. Il sistema alla base della filosofia lean è riassumibile nel gruppo delle cinque S, ognuna delle quali rappresenta un metodo di abbattimento del  superfluo:

  • Seiri (separare) separare ciò che è funzionale da ciò che non lo è
  • Seiton (riordinare) mettere a posto tutto ciò che è utile
  • Seiso (pulire) tenere ordinato e pulire l’ambiente operativo
  • Seiketsu (sistematizzare o standardizzare) definire delle metodologie precise per operare le attività di cui sopra
  • Shitsuke (diffondere) diffondere la filosofia lean in tutto l’ambiente aziendale

La lean pone rispetto alle organizzazioni fondamentali un grande rispetto per i lavoratori, ha come idea regolativa il continuous improvement, ricerca la perfezione, ed è una vera e propria filosofia (lean thinking), tant’è che ha come motto bulding people then building products. L’organizzazione lean ha come punto forte il rispetto per le persone e il loro coinvolgimento (in tutti i gradi dell’organigramma aziendale) al cambiamento dello status quo.

Giovanni Sacchitelli

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