Eco e la polifonia
Leggere Il nome della Rosa (Bombiani, 1980), significa immergersi totalmente in un mondo a sé stante, separato dal mondo secolare, come è simbolo L’abazia, in cui è ambientato il romanzo di Umberto Eco. Uscito nel 1980, è opera di una mente filosofica capace di introdurre su diversi livelli di lettura i temi medioevali di Dio, della purezza, della vita ultraterrena, dell’utilizzo della razionalità logica, della vita e dei doveri di ogni religioso. Un romanzo sicuramente non facile, al quale possiamo accedervi sia per la via maestra che per quelle mezzane, al fine di incontrare i temi importanti di cui parla. Catalogo infinito delle credenze mediovali, con precisi richiami storico-filosofici, ci fa riflettere su tante sottigliezze teoriche, che erano proprie delle scholae (le Università medioevali), ma anche dei luoghi di culto; le abbazie, come è l’ambientazione letteraria, le corti papali, i conventi, la vita degli ordini mendicanti. Il Nome della Rosa è un romanzo sui limiti degli ideali teologici cristiani, si interroga sulla possibilità reale di una purezza monacale estrinseca e precisamente separata dal resto della vita secolare (laica). L’abbazia nella quale si snodano le indagini sagge di Guglielmo da Baskerville, insieme al suo novizio benedettino Adso, è un ottimo ritratto della vita monacale, simbolo dei limiti e della contraddizioni della religiosità. Abbazia benedettina, rispetta le regole della regula di San Benedetto (risalente al quinto secolo dopo Cristo), comprese quelle del silenzio o del divieto di proferire enunciati che inducano al riso. L’ideale benedettino (al quale nel romanzo si oppongono diverse regole da differenti ordini religiosi: i francescani, gli eretici Dolciniani) vuole degli esseri perfetti dedicati all’ora et labora che si misurano con i limiti connaturati alla stessa natura umana, laica e religiosa. I divieti, il rispetto ossequioso della regola introdotta da San Benedetto, portano alla crezione di anti-umani, votati alla lussuria, alla sodomia, all’invidia, alla gola. Tutto questo ambiente della court si contrappone a quello basso della ville; l’abbazia infatti è difesa da un muro di cinta che la separa dal mondo reale. L’edificio (così viene chiamata la fortezza nella quale è presente la biblioteca-labirinto) con la sua maestosità sta quasi ad indicare l’inattacabilità della citta di dio.(Agostino)
Il nome della rosa è, oltre ad un indagine di un francescano inglese su una serie di omicidi (nell’ordine spariscono: Adelmo, Venanzio, Berengario, Severino, Malachia) con un saggio utilizzo della sillogistica aristotelica, un racconto sui limiti di una condotta religiosa, come può essere quella dei benedettini, che porta inevitabilmente a conseguenze infauste; tutto ruota intorno ad un libro, il secondo libro della poetica, che Aristotele dedica al riso, elogiandone la funzione, come mezzo di liberazione dalla paura. Un vegliardo dell’abazia, Jorge da Burgos, portatore di un atteggiamento conservativo delle verità di fede, vede di cattivo occhio la lettura di questo libro, che per anni è stato nascosto nel labirinto-biblioteca. E’ autore e concorre alla morte dei monaci troppo curiosi, intingendo le pagine del libro maledetto con del veleno; sfogliando le pagine del libro, si muore avvelenati. Un ottimo metodo per evitare che apprendendo che il riso non è deplorevole ma ha una precisa funzione antropologica, i religiosi dell’abbazia (simbolo dell’intera cristianità) possano non aver più paura del demonio e quindi anche di Dio.
Numerose le voci (cfr. Bachtin) che si alternano in questo concerto di idee. Eco si ispira nella forma letteraria all’esempio rinascimentale di Rabelais (Gargantua e Pantagruele) nonché al romanzo filosofico di Voltaire, ma solo in parte. Bachtin riteneva che il romanzo è tale se raccoglie in sé la polifonia, ovvero la presenza di più voci, che il romanzo di Umberto Eco bene mette in mostra; latino, greco, arabo, volgare, lingua dei contadini. Tutti questi diversi punti di vista concorrono nel rappresentare bene la realtà medioevale (quattordicesimo secolo) che si vuole raccontare in ogni aspetto, anche quello meno significativo. Perché a questo calderone rabelesiano di lingue si antepone la purezza, impossibile, dell’Abbazia benedettina.
Giovanni Sacchitelli