Sogno#1: La gabbia
Una gabbia gigante fatta d’incroci e stanze chiuse, piazze e loculi e scivoli e strettissimi corridoi murati a metà. Da lontano sembra una giostra affollata, sedie colorate che ballano, prigionieri felici di giochi bislacchi e cacce al tesoro, filari di ferri affastellati a cucire le imposte, porte per dita, scale ai soffitti, occhi abbaino ad ogni grata che sbuca dai muri, cancelli a strapiombo, finestre disegnate sui pavimenti e cieli dipinti male sulle botole. Da lontano sembra una casa stregata alla rinfusa, di quelle che vediamo montate improvvise alle sagre di paese, ma con quel nescio quid d’ illogico e irreale che popola i sogni, tutto l’impossibile dei colori a cera nelle mani di un bambino. Questa gabbia che non so descrivere meglio di così, mi fa visita di notte. O forse sono io che le faccio visita. Di notte. Non riesco a capire come ci incontriamo, io e la gabbia. Sempre sullo stesso prato circondato di faggi, sempre nella stessa sera onirica, dopo una piccola e obliqua salita lungo la collina. Sempre la stessa: un declivio aspro a respiro acceso. Finisco sempre dentro di lei, non ricordo mai come: non ci sono ingressi o scale o chiavistelli. Sono sul prato a contare le impressioni e poi nel suo torace. Ingoiata come da una gigantessa meccanica, già oltre il piloro, già lungo le viscere. Ed è sempre una gran festa: tutti corrono da una parte all’altra, intrecciano fili di ferro e di lana, sbucano dai pozzi e dai solai, coperti di sporco e yuta e risate, febbrili in una qualche importantissima ricerca. Ovunque sbuffi di vapore e vociare indistinto e sciamare di gambe, spintoni, occhiatacce. E poi le sedie colorate danzano irregolari sballottando chi le inforca in ogni dove. Mi accorgo solo dopo, sempre, che qualcuno si sfracella: è un grosso rullo coperto di sedie l’anima di questa gabbia. E tutti si accalcano per sedersi, tutti sballottati, qualcuno finisce di sotto. E non so come, ma so che sono sessanta metri. E quelli che sembravano stracci scenici dal prato si rivelano corpi. La gioia nel tentare di domare le sedie è così pazza, così ingiusta da togliermi il fiato. Ogni volta. Poi capisco che tutti credono che quello sia l’unico modo per uscire. Uscire dalla gabbia precipitando sui morti sperando di non morire. Chi finisce di sotto spera. Chi viene sbalzato lontano ritenta. E tutte le stanze, i pieni e i vuoti, gli scorci, i disegni sono altrettanti tentativi di uscire. Ma perché questi pazzi ridono? Perché vedono in questo orrore una specie di gioco? E poi mi ritrovo anch’io su una sedia. Ed è sempre verde. Puntualmente finisco di sotto. Puntualmente mi sveglio. E non capisco. Resto sull’orlo di una metafora che non si scioglie. Spesso è mercoledì. Il rigurgito di una qualche tara recondita, forse, mi si riversa dentro e resta sospeso tra il sogno e l’incubo. Forse dovremmo ricordarci chi siamo stati per dare un senso a chi siamo e a chi saremo. Una parte di noi lo sa e ce lo dice nei sogni. È un monito, un sussurro, la carezza o lo schiaffo che ci sveglia quando stiamo per addormentarci nel bel mezzo dello spettacolo. Si recita a soggetto: mentre scorri cattura ogni detrito e interrogalo più volte. Scorrendo. Me lo dico. Lo ripeto. Lo scrivo. Ma in fondo è un po’ terrificante portarsi dietro tutti i ruoli interpretati, commedie e tragedie e maschere, costumi, brandelli di storie. E allora nascondiamo tutto nei camerini del vivere, finchè non chiudiamo gli occhi e si schiude il sipario. Uno specchio sostituisce la platea e allora andiamo in scena esibendoci di fronte alla giuria più impietosa: noi stessi. Tutto significa. Niente significa. L’inconscio sputa rimossi che abbiamo disseppellito per riseppellire, ma che rifiutano l’oblio. Ci piace pensare che due uomini giocano a scacchi nell’aldilà e che siano Freud e Pirandello. Ma potrebbero essere anche Cristo e Kurt Kobain. Ci piace pensare che anche questo sia solo un sogno. Ci piace pensare, soprattutto, che la gabbia non è mai esistita e che nessuno muore veramente. Nei sogni.
Delia Cardinale