Sogno#2: La pecorella cyberpunk
Di come l’inconscio ci traduce in un personalissimo esperanto, ce ne accorgiamo nello specchio di qualche mattina postmoderna, dopo l’ennesima epopea onirica che ci gonfia gli occhi di nubi smorte e violacee.
De Chirico doveva sognare più o meno le stesse cose, prima di riempirci i libri di manichini e Grecia antica.
Perché questo viaggio è stato come sprofondare in una Metafisica futuristica, con un tocco di quel cyberpunk che ci ha rapiti in qualche vecchio lontanissimo Oriente.
La città del mio sogno era lo spaccato di un mondo apocalittico popolato di deforme umanità, violata dalla robotica e da ignote radiazioni.
Ed eravamo un gruppo di superstiti girovaghi tra i relitti di una società degradata. C’erano i mostri metallici di Asimov e i popoli scimmieschi di una Chernobyl fantastica e inquietante.
Si viveva nei relitti di ciò che era stato, dopo la generica catastrofe che avevo ridotto tutti agli istinti più ferini. La città post-apocalittica è uno scenario familiare non solo alla mia giocosa sensibilità distopica, ma a chiunque legge davvero i giornali o ha conosciuto il deep web. Solo l’onice può essere così lucida.
E la Bibbia in certi versetti. O il carbonio 14.
Questo mio branco viveva nel terrore di una qualche incursione esterna. Ma bisogna assolutamente precisare che bene e male, in questo mondo, non erano facilmente distinguibili. Sepolti il manicheismo delle fiabe e la dittatura del kalos kai agathos che ci aveva irretiti fino agli anni zero.
Qui siamo molto oltre e molto lontani.
Un essere deforme poteva indicare gallerie e zone da evitare, una bellissima donna volpe scarnificare i cadaveri.
In qualche modo la morte si dipinge mastodontica sotto le palpebre serrate, declinata in mille poetici modi, in milioni di milioni di verità. Ma non fa paura come da svegli.
Diventa come la prima comunione, i fiocchi ai portoni, le nevicate di polline, la fame animale. E noi, questo manipolo di sprovveduti, a vestirci d’immondizie e sparare agli uccelli più lenti. Col mitra e la bussola, le unghie nere e i visori notturni. Dovevamo lasciare la casa fatiscente in cui avevamo trovato riparo da altri esseri che ci avrebbero uccisi o ammazzati. Non per cattiveria: in fondo erano come noi.
Tutti volevamo sopravvivere.
Ma loro fuori, erano più forti. Noi, a volte, più furbi. C’erano pochi periodi di pace, in cui, nel più profondo silenzio, suonava una specie di allarme: era il momento di scappare per trovare un posto migliore. Il momento in cui le ombre erano più lunghe.
Certi robot facevano a pezzi qualunque creatura, altri lustravano l’asfalto tra le macerie, indifferenti e lontani. Certi ibridi intra-specie mangiavano i cani morti, i bambini morti e speravano ci addormentassimo. Altri erano così tristi e soli: non riuscivano a respirare o a muoversi o a mangiare. E morivano loro, cercando aiuto alla nostra porta di legno tarlato: non si poteva rischiare. Quanto eravamo sporchi tutti, dentro e fuori.
Alla dogana dei limiti possibili.
E io custodivo una piccola pecorella di ceramica. Una pecorella che era stata una boccetta di profumo. Le mancava l’orecchio sinistro. Era ciò che avevo di più caro: il segno tangibile di un ricordo. La memoria dei sogni è diversa da quella che ci portiamo in tasca ogni giorno. Tutta la mia vita era finalizzata alla protezione dei miei compagni e di questo logoro oggettino. Il resto non contava: ogni altro tipo di empatia che in un mondo civile avrebbe avuto senso, qui non esisteva. Ed ero a mio agio in questa piantagione d’ossa e rottami, come se non avessi conosciuto altro. Ciò che il sogno rende possibile è una completa distorsione del reale che dà vita a una nuova realtà con le sue leggi. Immorali, antifisiche o completamente folli. Accettiamo l’inaccettabile solo dove nessuno ci guarda. È stato come vivere nel ciondolo fatto d’ingranaggi d’orologio che ho comprato alla fiera qualche giorno fa, per quanto possa sembrare strano associare questa dimensione orwelliana a un gioiello. Ricordo vagamente che dopo un allarme eravamo usciti. Io chiudevo la fila del mio branco. Una mano meccanica grande come un tir iniziava a spazzare via tutti i miei compagni. Stringevo la pecorella nascosta in un sacchetto di velluto blu nella tasca interna di un gilet militare. Provavo rabbia e dolore. Non avevo armi contro questo nemico, se non la fuga. Poi ha suonato un allarme diverso e remoto.
Ci ho messo un po’ a riconoscere la mia stanza bianca. Non saprò mai se sarei sopravvissuta. Non saprò mai che fine ha fatto la mia pecorella di ceramica.
Delia Cardinale