Gospel sull’isola di Wight
Londra, Jubilee Line, Baker Street, direzione nord. Sale un ragazzo. Ha il viso pallido, allungato, occhiali di metallo, le lenti sporgono dalla montatura; si appisola e le labbra sorridono. Di fianco a lui, una ragazza bionda si fa una smorfia in uno specchio da borsetta. Un uomo cena, vaschetta di plastica sulle gambe, mastica e si pulisce la bocca.
Swiss Cottage, sale una voce nera: “Help me if you can, I’m feeling down and I do appreciate you being ‘round. Won’t you please, please help me?”
La musica è negli auricolari, bianchi. Indossa un berretto di feltro con la visiera, scarpe da ginnastica, pantaloni molli, una felpa. Potrebbe avere sessant’anni, o forse meno, e canta da Dio. Anche la sua pelle è nera. Due passi morbidi, senza spostarsi, le dita schioccano a ritmo. Il ragazzo pallido si sveglia e gli si riaccende il sorriso, negli occhi. L’uomo chiude la scatola della cena e la ragazza mette via lo specchio. I loro sguardi si incrociano, vivi.
Ultima strofa: “Won’t you please, please help me, help me, help me, oh”, poi silenzio.
Il ragazzo, la ragazza e l’uomo che ha smesso di mangiare aspettano.
Lui si molleggia sulle ginocchia, schiocca di nuovo le dita, uno, due: “Yesterday, all my troubles seemed so far away”.
Il treno ferma a Kilburn e Tom scende. Le porte restano aperte abbastanza da lasciare che la scia della sua voce torni sul treno: “Oh, yesterday came suddenly”.
Sul pavimento è rimasto un libretto plastificato e il ragazzo pallido lo raccoglie. Sono fotografie. Si volta verso le porte, si stanno chiudendo. Tom è sulla banchina e guarda dentro con le braccia alzate. Il ragazzo pallido solleva il libretto davanti al finestrino e gli fa segno di aspettare. Il treno si allontana e lui vede Tom abbassare le braccia, giungere le mani e accennare un inchino.
Si siede e guarda il libretto per qualche istante, poi lo apre. Due bambini mangiano un gelato. Jeans a zampa d’elefante, un colletto di camicia a punte sbuca da un maglioncino attillato, una mano in tasca. Sullo sfondo, tre donne e un furgoncino da cui si sporge un uomo, sopra la sua testa YIPPEE! ITS Mr. Whippy. In basso a destra un rettangolo di carta ingiallita, c’è una scritta sbiadita, se l’avvicina agli occhi per riuscire a leggere: “Liverpool, agosto, 1974”. Lo allontana, lo osserva dal fondo delle braccia distese, inclinando un po’ la testa su un lato, poi se lo appoggia sulle ginocchia, lo richiude e ci passa sopra una mano, come se lo stesse accarezzando.
Willsden Green, il ragazzo pallido trae un respiro profondo, raddrizza le spalle e scende. Sale le scale, gira a sinistra e torna sulla banchina, in direzione sud. In cinque minuti è a Kilburn. Tom è in fondo alla stazione, seduto su una panchina, rigira gli auricolari tra le mani, potrebbe essere un rosario.
Il ragazzo pallido si avvicina: “Ehi!”
“Oh, Dio ti benedica”, risponde Tom, intanto solleva la testa e si alza in piedi.
“Di niente”, dice mentre gli porge il libretto, “canti molto bene”.
Tom lo prende in mano, con delicatezza: “Prendiamoci una birra, ragazzo”.
Il ragazzo pallido si aggiusta gli occhiali e gli sorride: “Offro io”.
Tom si avvia verso l’uscita della stazione, cammina due passi davanti al ragazzo pallido e sorride guardando i propri passi. Sulla Kilburn High Road, l’insegna di un pub oscilla e cigola un po’: The Isle of Wight Inn, 1970.
Prima di entrare, Tom porge la mano al ragazzo pallido: “Mi chiamo Tom”.
“Alexander, ma puoi chiamami Alex, piacere di conoscerti”.
“Oh certo, scusami”, sorride Tom, “io sono Thomas Franklin M. D. Wight”, poi apre la porta con un gesto deciso e lo invita a entrare.
L’aria è densa di fumo. Si siedono. Sopra la testa di Tom, è appesa una vecchia fotografia in bianco e nero. C’è un traghetto che batte bandiera britannica, sullo scafo ha scritto “Red Line Isle of Wight”. Una targa sottile sulla cornice dice “Portsmouth 1969”. Alex fissa l’immagine, come se volesse individuare un volto tra quelli che si sporgono verso l’acqua. Tom allora si volta e guarda in su, poi tira fuori dalla tasca della felpa il libretto di plastica, lo apre, più o meno a metà, e batte una mano tra le due foto, per attirare l’attenzione di Alex.
A sinistra, c’è lo stesso traghetto che è appeso alla parete. A destra, una folla su un grande prato, tutti rivolti verso un palco che si intuisce di sbieco. Ballano, si baciano, fumano, qualcuno è seduto, qualcun altro sdraiato un po’ più in là, quasi tutti bianchi, tutti hippie. “Peace and Love”, su una bandiera in primo piano. Le spalle di Tom oscillano e dal suo stomaco sale una risata che gli apre le labbra e mostra i denti perfetti. Un gruppo suona alle loro spalle, alla chitarra un ragazzo nero lo guarda: “… he was famous long ago – For playing the electric violin – On desolation row”.
La mano di Tom volta pagina. Una spiaggia, sulla sabbia una grande croce fatta di pietre e la scritta: “Qui giace Bob Dylan”.
“Tu c’eri?”, chiede Alex a Tom.
“Ho iniziato a esistere lì”.
Tom fa scorrere le fotografie e gli si chiude il sorriso. Ci sono giovani su una spiaggia, si toccano nel sapone, una scogliera punteggiata di hippy e spazzatura, un ragazzo nero e uno bianco che ballano in piedi, in mezzo alla folla, poi bambini neri, che scaricano cassette da un camion, ragazzini su biciclette con i manubri da Harley Davidson tra muri di mattoni, una donna e un bambino in una lavanderia a gettone. Nella pagina successiva, il bambino è un po’ cresciuto e si accende una sigaretta, sta di fianco a una scala di emergenza e a una ringhiera scrostata.
“Chi sono?” Chiede Alex.
“Cinderella, she seems so easy …”, sembra rispondere la band da qualche metro di distanza.
Tom allora chiude il libretto di plastica e se lo rimette in tasca: “Quale storia vorresti sentire?”
Ha alzato la voce, Alex non capisce e continua a fissarlo, qualcuno si volta verso di loro.
Tom batte il pugno, sul tavolo questa volta: “Quale cazzo di storia vuoi? Quella dell’amore libero? Della pace o dell’uguaglianza? Quale merda di storia vuoi?”
La chitarra riprende il ritornello, si inserisce la voce: “And in comes Romeo … You belong to me, I believe”, poi smettono di suonare.
Tom conclude la strofa: “ …You are in the wrong place, my friend, You’d better leave”.
Due ragazze al tavolo di fianco al loro li stanno guardando. Tom batte ancora il pugno: “Che cazzo volete?” Sta urlando.
Un uomo grosso si sporge dal bancone per controllare. Il chitarrista nero gli fa segno con la mano che è tutto a posto.
“Secondo te io ero lì, sull’Isola di Wight, a godermela? Quanti cazzo di anni credi che abbia?”
Alex si toglie gli occhiali, si asciuga il sudore sulla fronte, beve un sorso.
Tom continua: “Mio padre aveva vent’anni nel 1969 e si è scopato una figlia di papà bianca del cazzo in mezzo al sapone. Quella è tornata a cercarlo nove mesi dopo, a Liverpool, con me di dieci giorni in braccio, più nero di lui”. Ride amaro, butta giù mezza pinta e riprende fiato: “Lui le aveva detto che era di Liverpool e che suonava con Lennon, quindi era sicura che fossi suo”.
Alex ha le labbra socchiuse e si strofina un occhio infilando l’indice sotto alla lente. Sta per dire qualche cosa, ma Tom lo precede: “Ragazzo, l’isola era un grande casino, ma i neri si contavano sulla punta delle dita”. Poi si appoggia all’indietro, incrocia le braccia e chiude gli occhi.
Il gruppo riprende a suonare. Uno-due, un-due-tre, uno-due, uno-due, attacca il clarinetto, lo segue la voce: “When I get older, losing my hair …” Tom segue il ritmo con la testa, uno, a destra, due, a sinistra, un-due-tre, in avanti e sta cantando, sottovoce: “… You’ll be older, too”. Sorride.
“Forza ragazzo, puoi dirmi che storia vuoi”.
“Ha suonato con lui?” Gli chiede Alex.
“Vuoi dire mio padre? Con Lennon? Credo di si …”
“Credi?” Insiste Alex.
“É la storia che mi ha raccontato, quella che volevo, forse”, prosegue Tom, sorseggiando quel poco di birra che gli resta, “forse era quella che voleva anche lei … e tu, ragazzo, perché vuoi questa storia?”. Poi tira fuori la foto dei due bambini col gelato e l’infila sotto al bicchiere vuoto.
Alex fa scivolare la foto e la trascina verso di sé: “Era un impostore”.
Tom lo guarda e scuote piano la testa: “Forse. La storia, comunque, è andata avanti da sola e poi tutto è passato, o quasi, ragazzo”.
l gruppo canta: “Every summer we can rent a cottage – In the Isle of Wight, if it’s not too dear …”.
Alex beve l’ultimo sorso: “Un altro giro?”
Tom mette le mani sul tavolo e ci si appoggia per alzarsi: “È tardi, ragazzo, dobbiamo andare, hai detto che offri tu?”
Alex paga e lo segue fuori dal pub.
Camminano verso la stazione di Kilburn: “Tutto qui?”
Tom si ferma e si gira verso di lui: “Tutto qui. Sei sceso dal treno, no?”
Alex stringe gli occhi miopi, come se le lenti spesse non bastassero per mettere a fuoco: “Cosa vuoi dire? E tua madre? Chi è la donna nella lavanderia? Sei tu il bambino? Chi cazzo era tuo padre?”
Gli occhi di Tom ridono. Si ferma e da una pacca sulla spalla di Alex, poi riprende a camminare: “Ragazzo, cosa vuoi fare? Torni al treno? Io devo andare”. Adesso ride con la voce e aggiunge: “Hai visto la mia pelle? Credi davvero che mia madre fosse bianca e che mio padre suonasse con Lennon? O che avesse un camion per i gelati? Era un impostore? Forse. Ero io quel bambino? Ogni bambino, ragazzo, eravamo noi”.
Alex resta un passo indietro: “Smetti di prendermi in giro. Sono tutte palle”
Tom cammina senza voltarsi: “Chi è tuo padre, Alex? Potrei essere io? Certo nero non è, ma forse è un impostore”, ride ancora, si vede da come muove le spalle, “e quel bambino, forse, sei tu”.
“Tom, sai cosa? Hai rotto!”
Tom allora solleva le braccia verso il cielo, si molleggia sulle gambe e intona una specie di gospel: “Alleluia, alleluia”.
Sono arrivati sulla banchina e si vede il treno in lontananza: “Puoi risalire o camminare da solo, eccola qui l’isola di Wight”.
Il treno ferma, Tom ha il berretto in testa, si infila le cuffie, mette il piede sulla carrozza e inizia a cantare: “Ah, look at all the lonely people”.
Alex resta fermo davanti alle porte aperte, vede due donne, potrebbero essere madre e figlia. Sollevano gli sguardi e ascoltano, all’unisono: “All the lonely people. Where do they all come from? … Where do they all belong?”
Uno scritto di Simona Soci duramte il corso di scrittura “Make me hippie”
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