Après Chagall
Certo che Chagall deve essere caduto dalla scala di Ral facendosi molto male, pensava. Con la best brau senza dieresi, i pesci nella testa e le tasche piene di scontrini. Guardava il mondo dal forellino di un goniometro pirandelliano e gli piaceva quando l’arte lo precipitava in qualche laguna metafisica. Ci leggeva dentro gli anni di sua madre, i cerchi degli alberi e tutte le fasi alchemiche. Anche la Viriditas che gli ispirava così poca poesia. Doveva esserci un cinque di bastoni dimenticato da qualche parte. Sperava di non trovarlo mai: è così calmo l’immondo non sapere.
Ha sempre amato la Garisenda, il suo personalissimo Quasimodo morto d’amore: gli piaceva pensarla così, dopo piazza Maggiore e il tergo di Nettuno. Il blu di Chagall gli sembrava Jung a Vienna nel 1907. Il rosso Marx, poco prima, a Berlino che stringe gli occhi. Rideva, poi, pensando a quante persone portano lo stesso nome, ma sono così diverse. Come i colori. Per definire i colori bisogna per forza paragonarli. Non deve essere così per chi li crea: i figli, i colori. Le parole anche.
Pensava a quando lui stesso aveva inventato il viola dispersione, sentendosi Chagall. Che bello il viola dispersione: un’onda d’orgoglio gli riempiva il torace. E si accarezzava i ventricoli.
Chissà cosa succederebbe se tutti gli spettatori diventassero attori nel bel mezzo della Turandot. Se tutte le persone fossero improvvisamente sincere. Se tutti i cracker tenessero una conferenza su rai uno. Chissà cosa c’era dietro la porta a soffietto in via del Carro. E chissà perché le tre “J” hanno smesso a ventisette anni. Milioni di domande per coperta, col santissimo cuscino del non importa, concedevano una fine alle sue giornate. I punti sospensivi del pensiero permettevano ai sogni di riprendere il discorso, in medias res. Come tutte le cose della vita.
Certo che Chagall deve aver amato tantissimo la sua Bella, si diceva. Chiedendosi cosa si provava a vivere un sentimento che finisce davvero con una morte, sopravvivendogli. Doveva saperlo pure Dante. C’è un qualche dio in tutto questo. E credo che questo dio sia proprio l’arte: quei colori, quelle parole. Eternare: che bella parola. Che bel concetto. Eternando non ci si separa mai da qualcosa perché quel qualcosa ci sarà anche dopo di noi. Ci sarà sempre. È commovente, pensava. Così forte e vero e raro. È questo l’amore. È questa l’arte. Dio arte amore. Rideva, perché in fondo l’arte è solo uno strumento. Ma tornava ai colori perché stava per impigliarsi nella logica e non gli andava.
Poi l’improvvisa illuminazione: il cinque. Il quinto chakra, quello del blu, quello della gola. Il suo. Mentre il viola dispersione è un attimo più su, sopra la testa: qualcosa a cui tendere, qualcosa di solo intuito. Si sentiva a una spanna dalla verità. A una spanna da Chagall, da Jung, Dante e Marx. Ma quella presuntuosa spanna faceva una differenza oceanica. E tornava agli orli dei bicchieri, agli orecchi nelle pagine, al rubinetto che goccia. Tornava a tutto ciò che si può toccare.
Dovrebbe aprire un negozio di lacci, spaghi e nastri. Dovrebbe vendere collegamenti. Se lo diceva spesso, dal primo castello di carta, dal primo fiammifero. Ma non ci avrebbe guadagnato nulla, allora teneva i fili per sé, ci giocava e ne comprava di nuovi. Sempre più numerosi, sempre più colorati.
Anche lui era un artista dopotutto. Aveva eternato, a suo modo. In una piccola stanza errante, senza pubblico, senza gloria.
Era l’artista delle piccole cose, l’artista dei collegamenti e dei fiammiferi. L’artista del retrobottega che guarda il mondo dai goniometri, dagli occhiali sporchi, dai negativi fotografici.
Di fronte a Chagall si frantumava, ritrovandosi poi, dopo il caffè con Stendhal, un po’ più intero. Migliore.
Delia Cardinale