Del precariato esistenziale e di altri demoni
E siamo qui a progettare case di lego che ricicleremo prima di inaugurare per costruire navi e colli di bottiglia e cotton fioc.
Un silenzioso equipaggio affaccendato su barche di carta, di vecchi giornali al macero come noi, nel cordame asfittico che tenta di catturare i venti sistemici e incostanti degli anni zero.
Qui dove anche i sentimenti sono in smart working e si cambia ufficio velocemente, in base a quelle statistiche che ci hanno risparmiato qualche inciampo, qualche apocalisse.
Sfoggiando il nostro meglio alle cene, alla scrivania per guadagnarci un posto in fondo a destra nella retina di qualcuno che ci illudiamo possa salvarci.
Eppure siamo sempre soli, dopo ogni fioco sogno spirato che vivremo come una sconfitta, anche se siamo stati noi ad assassinarlo.
L’anticamera della fede è già una colpa, al trigesimo del tempo perso credendo in certi abbracci che ci hanno fatto dimenticare una qualche guerra.
Non si può scendere dalla giostra al primo conato di vomito e allora abbiamo imparato a convivere col disgusto, con gli ospiti indesiderati e tutte le delusioni.
Si parte e si ritorna in una tensione costante che affina i sensi e scongiura tuffi maldestri. Sempre armati e informatissimi, diventiamo isole alla deriva in videochiamata costante col continente, pronti a cambiare canale, pronti a togliere la connessione prima che ci venga tolta.
Quando poi torniamo dove siamo nati per riposarci, ci sentiamo balene nelle pozzanghere, guardandoci intorno e scoprendo tutti i modi che non abbiamo scelto, tutti quei no che ci toglievano il fiato a vent’anni e che comunque non vorremmo. Eppure, nella quiete, tornano tutti i bivi imboccati ad occhi chiusi, pugni stretti e stomaco serrato. Tutto ciò che ci avrebbe reso diversi, meno cinici, meno egocentrici.
Anche quegli abbandoni, quel tergo deciso per proteggerci da gabbie generiche e punti fermi. E forse dovremmo rimproverarci qualche eccesso d’orgoglio, qualche altissima barriera. Ma siamo brillanti diplomatici solo esteriormente: dentro abbiamo una corte marziale. In primis per noi stessi. Accompagnarsi poi, farlo veramente. In questi tempi funambolici.
Bisogna essere molto deboli: questo ci ripetiamo allo specchio, ogni mattina. O forse coraggiosissimi, ma questa versione ci piace meno.
E torniamo al compiacimento della statistica, alla putredine della maggior parte dei legami di cui, col privilegio dello spettatore, indoviniamo ogni ipocrisia.
Continueremo così a mangiare zuccherini, mentre il mondo intorno si amareggia. Ma forse siamo solo gelosi di quella leggerezza, di quel lasciarsi andare senza allarmi, di quelle lacrime. Torniamo al nostro orto, alla valigia, a nuovi viaggi.
Perché la maggior parte delle volte non ne vale la pena e certe cose davvero non possiamo permettercele. Se dovessimo cadere, non avremmo cuscini sotto di noi e forse la differenza è solo in questo: nei cuscini, in qualche certezza, salvacondotto, rifugio, tempo.
Noi non sapremmo dove trovare pace. E siamo troppo intelligenti o, forse, abbiamo perso troppo. Troveremo quella pace un giorno: siamo fluidi, curiosi, aperti a tutto. Conosciamo il sacrificio, le speranze e i sepolcri.
Ma abbiamo i nostri tempi, interni ai nostri modi.
Proveremo a costruire ponti di cemento armato, prima o poi.
Proveremo ad andare a capo senza finire il capitolo.
Delia Cardinale