Franco del Bar

Franco era uno che indossava una vita sbagliata, come un paio di scarpe di mezzo numero più piccole, strette quel tanto che basta a deformare leggermente l’alluce e a rendere l’andatura claudicante. Ma era l’unica che aveva. E l’amava. Con tutto l’amore di cui era capace.

Gestiva un piccolo bar allo svincolo tra la complanare e la tangenziale; l’insegna recitava semplicemente “Bar” e lampeggiava verde, una farmacia per l’anima e gli occhi stanchi di camionisti e avventori del caso.

Per le ragazze invece era un tempio profano in cui celebrava la loro bellezza ritraendole in pose altrettanto profane sul raso damascato del divano al centro del suo piccolo atelier: vi si accedeva attraverso le catenelle glitterate di una vecchia tendina anni ottanta, dietro il bancone, accanto alla porta del bagno.

A fine turno le ragazze scendevano dai trampoli di vernice, allentavano le guaine in similpelle che fasciavano i loro corpi offerti alla strada e tornavano esseri umani, col piccolo vezzo della vanità. Franco regalava loro un’immortalità formato 30×40 che probabilmente non avrebbe mai lasciato le pareti sporche dello sgabuzzino in cui era esposta.

C’erano Jasmine, Katharina, Nadja, Marguerite, e decine di altri nomi di fascino e fantasia. Le faceva ridere. Loro lo adoravano e lui ricambiava quell’affetto puro in cui non c’era posto per il sesso. Erano una famiglia.

Un giorno arrivò una nuova.

– Sei tu Franco? Io sono Jane. Le ragazze mi hanno detto che puoi farmi bella.

Franco sollevò la testa e rimase folgorato. Balbettò:

– S..s..ono io, Franco del Bar.

– Dove posso accomodarmi?

– Da questa parte.

E le fece strada attraverso la tenda.

Il battito accelerato del suo cuore doveva aver svegliato il vecchio Mimmo addormentato su una Raffo riscaldata a pagina quattro della Gazzetta.

– Che c’hai oggi, Fra’?

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TESTO E FOTOGRAFIA DI CINZIA SUGLIA

per MALEDETTI VIVACI