Nella guerra di trincea dei rapporti di potere tra i generi, le rivoluzioni sono sempre femminili plurali.

L’episodio tutto italiano del “falloncino sgonfiato” di Sanremo, brillantemente commentato da Filippo Ceccarelli nella rubrica Audiovisivi di Repubblica, assurge a simbolo dell’odierna condizione del maschio eterosessuale nostrano: “lanciare il sesso” e nascondere la mano; è proprio il mondo dell’arte e dell’immagine a veicolare lo svilimento, tra il tragico e il comico, del maschile di fronte all’istanza di un femminile che si riappropria delle sue prerogative, innanzitutto iconografiche.

La Oly Vagina sfila per le piazze internazionali fuor di scandalo e di metafora, mostrando, come immagine realistica e significante, il passaggio ideologico dal tabù al totem.

La reazione del maschio italiano, di fronte ai cambiamenti in atto, tesi a un progresso di specie e civiltà, a lungo procrastinato in virtù di un’interiorizzazione profonda e non sempre consapevole del sistema patriarcale, si traduce sovente in una deresponsabilizzazione individuale e collettiva.

Ogni stereotipo di genere è figlio del patriarcato, trionfo di un certo tipo di maschile e bambagia ideologica per il gregge ambigenere, istituto sociale dominante da tempi immemori.

Lo scrittore Francesco Piccolo in “Date ai maschi il giusto processo” (Repubblica) afferma che per l’universo maschile colpevolizzare la trita figura del “maschio alfa”, spauracchio tipografico che assume la funzione dell’antico pharmakòs, è la prima forma di deresponsabilizzazione.

“L’uomo con la clava” è riconoscibile e additato, mentre il maschio colto, democratico e progressista si esclude dal banco degli imputati, barricato dietro all’ “Io non sono così”.

Piccolo parla di giusto processo come qualifica di una società civile ed evoluta; sotto processo, per ciò che riguarda le questioni di genere, è il maschio, individualmente e collettivamente.

La spiegazione a questo sottrarsi, per lo scrittore, si traduce nella paura che il maschio colto, democratico e progressista ha di essere giudicato.

Avere paura di sedersi al banco degli imputati è sia deresponsabilizzazione che, in alcuni casi, ammissione di una qualche “colpa antiprogressista”.

Uno sguardo a un certo tipo di femminile mostra una tendenza opposta e contraria, in gran parte dovuta al fatto che l’antiprogressismo non è vissuto, ma subito dal femminile; averlo subito e subirlo è la prima ammissione di colpa da parte di un femminile plurale che si siede al banco degli imputati, raccontando esperienze personali e mettendosi a nudo sotto quegli stessi riflettori che al maschile incutono, consapevolmente o meno, un terrore indiscusso. Certo, il mondo femminile (nelle sue espressioni che oso definire “migliori”) circoscritto e dominato per secoli, nel chiuso di quelle “stanze tutte per sé” di woolfiana memoria, ha avuto modo di costruire, lentamente e inesorabilmente, una potente ideologia per armare la più grande rivoluzione sociale, ancora inconclusa, dopo l’abolizione della schiavitù.

Come nel maschile, anche in una parte del femminile si assiste ad un’interiorizzazione, tra il rassicurante e il degradante, del sistema patriarcale; conseguenza transitiva di subculture che considerano la sudditanza del femminile al maschile come fatto indiscutibile e necessario.

Basti citare il fenomeno social delle “pancine”, che, tra caricatura, paradosso e realtà, è diventato oggetto di studi sociologici e antropologici.

Per Francesco Piccolo, il progresso coincide con la diminuzione del grado di innocenza di una società; egli afferma, con grande lucidità sociale e, oserei, politica, che al numero zero di innocenti corrisponde non più una rivoluzione, ma una riforma.

Riformare: (dal latino re- e formare) trasformare dando forma diversa e migliore, riordinare mediante movimenti e/o azioni che sostengono un rinnovamento, modificare sostanzialmente; soprattutto riformare le menti, sia maschili che femminili, spesso atte a una riproposizione parossistica del noto e reazionario patriarcato che se, in alcuni casi, si cala, in contumacia, entro modi di vivere vestiti di neomania, autoreferenziali e/o mistificati, in altri, sperimentando il cortocircuito con i cambiamenti in atto, promossi da un femminile pensante e perfettibile, sfocia in forme disumane di violenza fisica o psicologica.

A livello individuale e intrapsichico, la forza dell’Uber ich, per ciò che riguarda la percezione e l’interiorizzazione del genere, statisticamente più invasiva nel maschile (ovviamente presenza imperante anche nel femminile), rende, nell’ambito dell’argomento in oggetto, accettazione, responsabilizzazione e cambiamento, istanze difficili da afferrare e assumere, specie nel nostro pigro Bel Paese, in cui si assiste a una pletora di femminicidi (termine, non a caso, coniato ad hoc), aggressioni omofobe e transfobiche e violenze sessuali, non a caso perpetrate, nella maggior parte dei casi, da maschi eterosessuali. Scoprire il maschio metacognitivo e riflessivo, nelle idee di grandi scrittori e grandi menti, come Filippo Ciccarelli e Francesco Piccolo, conduce, ancora una volta, a quello che si configura per tutta l’umanità un concetto epistemico: l’importanza della cultura.

Da quando la cultura si è affrancata dal ristagno dell’accademia maschile e aristocratica, rendendosi risorsa comune a tutta l’umanità, lo stesso concetto di genere è mutato, staccandosi dalla biologia, rendendosi fluido e non più coincidente con quello su cui si basa il modello patriarcale: una storia che una qualche oligarchia umana ha voluto raccontare ai più e ad armi impari, per un’esigenza di ordine e controllo sociale.

Prendendo in prestito da Dostoevskij due figure archetipiche che incarnano la secolare contraddizione tra bisogno di regole e libero arbitrio, nell’ambito della guerra di genere, potremmo dire che questo tipo di maschile, maturato il passaggio dall’oligarchia al sentire comune e ora sotto processo, rappresenta il Grande Inquisitore, mentre Cristo, Cristo è femmina.

Delia Cardinale

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